ECONOMIA

Di nome precario

Dalla disoccupazione alla precarietà: gli inganni dell’economia capitalista, trucchi e segreti di un mercato senza scrupoli e possibili vie d’uscita nelle parole di Stefano Zamagni.
Intervista di Patrizia Morgante

All’interno di una giornata di studio su “Responsabili di quale sviluppo? Quarant’anni dopo la Populorum Progressio”, scambio qualche battuta con il prof. Zamagni invitato come relatore. Parlo con lui di questo modello di sviluppo e dei suoi limiti; della pace, della decrescita, della precarietà, del Welfare… Vi propongo alcune riflessione emerse.

Che connessioni vede tra Sviluppo e Pace?
La Populorum progressio diventò famosa tra le altre ragioni perché lanciò quello slogan che ormai è nel lessico comune “lo Sviluppo è il nuovo nome della Pace”. Il nesso Sviluppo-Pace è stato successivamente elaborato e oggi siamo in grado di dimostrare che buona parte, non tutte, delle situazioni di conflitto violento e armato sono legate ai differenziali di sviluppo che caratterizzano i diversi Paesi o regioni dello stesso Paese. È la povertà in senso relativo e non quella in senso assoluto che fa scatenare le guerre, perché un povero assoluto sopravvive con 900 calorie al giorno, non si regge in piedi e quindi non imbraccia un fucile. Sono invece i poveri relativi, cioè quelli che vedono allontanarsi le prospettive di miglioramento delle loro condizioni di vita rispetto ad altri gruppi di riferimento che reagiscono. Quando questa situazione dura nel tempo scatena un odio che si traduce poi in guerra. Quindi per ridurre le occasioni di conflitto dobbiamo ridurre le disuguaglianze.
Se vogliamo la pace dobbiamo creare istituzioni di pace, soprattutto quelle che afferiscono il mondo economico-sociale. La nonviolenza, in tempo di globalizzazione, è un presupposto soprattutto in termini individuali e di coscienza, ma non è in grado di produrre gli effetti desiderati. Oggi si mettono in atto dei meccanismi che Giovanni Paolo II stesso chiamò “strutture di peccato”: se non incidiamo su queste nulla cambia. La mobilitazione delle coscienze è necessaria, ma non basta: essa deve arrivare a modificare l’assetto istituzionale. Le prime istituzioni da cambiare sono quelle che riguardano i flussi di capitali e i flussi di persone, è necessario cambiare il modo in cui Banca Mondiale, Fondo monetario e Organizzazione Mondiale del Commercio operano. Se non arriviamo a far ascoltare la nostra voce, ovviamente nonviolenta, ai Capi di Stato per far loro modificare gli statuti, quindi le regole di funzionamento di questi soggetti ci sarà poco da fare. La pace è possibile, non condivido la posizione dei realistici che affermano che la guerra è inscritta nel DNA dell’essere umano e quindi la pace è l’eccezione. Io credo il contrario, ma la pace va costruita, non è un dono che ci viene dall’alto.
Ci sono tanti documenti della Chiesa che parlano di questi temi, ma sono poi i movimenti, come Pax Christi e altri, che devono tradurre queste indicazioni in proposte operative. A me, però, sembra di cogliere un po’ di stanchezza su questo… Oggi mi sembra relativamente facile coinvolgere i giovani sul piano della coscientizzazione di queste tematiche, ma è più difficile poi aggregare forze per arrivare alle istituzioni. Ci vogliono le marce della pace, ma non bastano.

Parliamo di far entrare l’etica nell’economia: non sarebbe meglio mettere in discussione proprio il modello economico?
Credo che più che mettere in discussione il modello si debba ritornare alle origini. A partire dal 1400 l’economia di mercato era economia di mercato civile, poi le cose hanno preso una piega diversa quando essa è diventata economia di mercato capitalistico. L’origine dei guai che oggi si denunciano non è il mercato, ma è un particolare modello dell’economia di mercato che è quello capitalista. A inventare l’economia di mercato furono i francescani, ha funzionato bene per circa due secoli sul concetto del bene comune; l’avvento del capitalismo ha spostato tutto sul bene totale. Bene comune vuol dire rendere civile il mercato e l’economia. Questa è una proposta concreta. Non basta dire che questo modello non va, dobbiamo dire cosa proponiamo. Più che parlare di nuovo modello di sviluppo – perché di nuovo non c’è nulla – io parlerei di tornare alle origini del mercato, quando aveva a cuore il bene comune di tutta la persona (nelle sue varie dimensioni) e di tutte le persone. Il modello capitalista afferma che il mercato serve solo alla dimensione materiale, invece la persona ha anche altri aspetti e bisogni.

Cosa è la precarietà, perché oggi se ne parla tanto?
La precarietà è il nuovo nome della disoccupazione. Infatti, da quando in Italia e altrove si parla di precarietà non si parla più di disoccupazione. Fino a non molti anni fa si parlava di disoccupazione e della necessità di combatterla. Oggi si combatte la precarietà. La disoccupazione è un fenomeno tipico della società industriale, la precarietà è un fenomeno tipico della società post-industriale. Che differenza c’è? Nel primo caso, quando un’impresa non riusciva a vendere i propri prodotti sul mercato licenziava, oggi le imprese non licenziano perché il licenziamento è ex-ante e non più ex-post come prima: cioè io assumo di tre mesi in tre mesi e quindi non ho più bisogno di licenziare. Oggi le imprese sono più astute, minimizzano i rischi assumendo in questo modo. Tutto questo è evitabile, ma dobbiamo cambiare meccanismo. Finché l’obiettivo è il bene totale la precarietà ci sarà sempre. Nella logica del bene comune non c’è spazio né per la disoccupazione né per la precarietà.

Cosa pensa della Decrescita?
Rispetto molto Latouche e lo conosco bene. Io non credo che siano molto praticabili le loro idee. La scuola della decrescita è come quei medici che sono bravi a fare la diagnosi, ma non altrettanto a indicare la terapia. Quindi la loro diagnosi è da me condivisa, la medicina che loro propongono o è velleitaria, quindi utopistica, oppure tende a produrre effetti contrari. Il problema non è ridurre il tasso di crescita, ma cambiare la composizione dei beni che si producono e che si consumano.
Il problema non è lo sviluppo in sé, ma cosa metti dentro questo concetto. La nostra proposta, quella dell’economia civile, è quella di ridurre la produzione di certe categorie di beni, tra cui quello delle armi, e aumentare la produzione e il consumo di altre tipologie di beni che sono i beni relazionali. Quindi meno beni materiali e più beni relazionali. Si potrebbe dire che vogliamo lo sviluppo non solo della parte materiale ma della totalità umana, quindi anche spirituale e psicologica. In generale noto che c’è una convergenza, si stanno avvicinando alle posizioni dell’economia civile. Questo è un bel segnale: dopo anni di discussioni finalmente si può fare insieme massa critica, se ci dividiamo tra noi non otterremo mai un gran risultato.

Due parole sulla realtà italiana in questo momento?
Da un punto di vista politico: i politici chiedono il consenso degli imprenditori per prendere le decisioni. E quelle che vengono prese sono il frutto di ciò che si decide a Bruxelles, a Francoforte o all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC – WTO). È necessario privilegiare una politica deliberativa e non solo rappresentativa.
Da un punto di vista economico: si parla di scomparsa del ceto medio, tipo effetto clessidra, con una base ampia e un forte restringimento al centro. Oggi la più grande discriminazione sul piano professionale avviene sulla conoscenza: viviamo nella società della conoscenza e dell’innovazione. Le aziende premiano chi ha creatività, capacità di innovarsi e reinventarsi. Questo è un grosso rischio per la solidarietà e l’economia civile.
Rispetto al Welfare in Italia: al 20% più povero della popolazione arrivano solo il 12% delle risorse, nel Regno Unito il 34%. Il Welfare non dovrebbe migliorare le condizioni di vita, ma la capacità di vita (capability). La possibilità, cioè, di uscire dalla dipendenza e procurarsi autonomamente le risorse. Io farei anche una distinzione tra i beni di giustizia e i beni di gratuità: i primi discendono direttamente dal dovere che gli Stati hanno di compierli; i secondi discendono dalla obligatio, cioè scaturiscono da un legame, da una relazione.

Note

Stefano Zamagni è docente di Economia all’Università di Bologna.

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    Stefano Zamagni è docente di Economia all’Università di Bologna.
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