Perché non accada più
All’inizio di quest’anno è stato pubblicato il libro di Shlomo Venezia, appena uscito in Italia, Sonderkommmando. Auschwitz (Rizzoli, ottobre 2007). L’esperienza che racconta è ai limiti dell’indicibile. Dopo 47 anni di silenzio, solo nel 1992 aveva trovato la forza di parlare, di fronte alle scritte naziste sui muri, negli stadi, sui negozi degli ebrei nel quartiere di Roma in cui vive. Incoraggiato dalla comunità ebraica, aveva cominciato a testimoniare in ambienti pubblici, nelle scuole. Poi, la prima volta di nuovo ad Auschwitz, con un “Viaggio della Memoria” organizzato per alcune scuole dalla Provincia di Roma. Ed è sul pullman, nel percorso da Cracovia al lager, in mezzo ai ragazzi, che, come ha detto lui stesso, i ricordi hanno cominciato ad affluire più numerosi e qualcosa dentro di lui si è sbloccato definitivamente. Da allora Shlomo ha raccontato la sua storia terribile tantissime volte in giro per l’Italia e all’estero, soprattutto in Israele, e sui luoghi dell’orrore: 46 volte ad Auschwitz. Testimoniare come impegno centrale della sua vita, del “dopo”, per tenere viva la memoria e far capire a tutti, soprattutto ai giovani, attratti dai messaggi subdoli e violenti, che bisogna vigilare perché non possa succedere mai più. Ma la parola scritta ha ancora un altro peso. E il coraggio di affidare alle pagine di un libro una storia così atroce è qualcosa di cui dobbiamo davvero essere grati al suo autore, oggi ottantaquattrenne: “Ho deciso di raccontare tutto, non voglio nascondere nulla né mentire”. Tutto, anche il degrado e l’annientamento della dignità umana che i nazisti perseguivano come obiettivo primario.
I Sonderkommando
Del lager Shlomo ha vissuto l’esperienza estrema: quella del Sonderkommando. Come spiega lo storico della Shoa Marcello Pezzetti tutti gli altri deportati hanno un limite ben preciso, anche quelli che lavoravano sulla “rampa” su cui le vittime stabilite andavano incontro alla morte, la rampa dell’ultima “selezione”. Solo gli uomini del Sonderkommand andavano oltre, andavano dentro: dentro le camere a gas e dentro il crematorio. Sono, quindi, quelli che veramente hanno visto la macchina dello sterminio nel suo funzionamento finale. Per questo il “negazionismo” li vede come i suoi principali nemici, quelli veramente pericolosi. Di fronte alla loro eccezionale testimonianza nessuno può dire che non è vero, che non è successo.Con lucidità e precisione e senza un filo di retorica, Shlomo ripercorre le tappe della sua vita. Greco di Salonicco, di famiglia con cittadinanza italiana, ci descrive il clima di crescente persecuzione, fino alla chiusura del ghetto, alla fine del 1942, e alle prime deportazioni. Poi, il suo ingresso nella Resistenza greca, l’arresto ad Atene, il treno per Auschwitz, l’11 aprile 1944, il viaggio, l’arrivo nel lager, la prima “selezione” ancora sui binari, con le scene di orrore e di violenza che tutti i sopravvissuti ci hanno raccontato. Poi la rasatura, la doccia gelata, il tatuaggio, la distribuzione degli indumenti: “Era tutto organizzato, come in una catena di montaggio di cui noi eravamo i prodotti finali”. E il sapere della sorte immediata della madre e della sorella da un prigioniero, che, semplicemente, gli indicò il fumo della ciminiera. E ancora, la lotta per la sopravvivenza nelle “baracche” durante la “quarantena”, i Kapò, le SS, gli altri detenuti, gli appelli interminabili, il trauma della scoperta progressiva del lager, finché la narrazione arriva al suo snodo centrale: la destinazione al Sonderkommando. Era il lavoro più “sporco”, e questo ha aggiunto al dramma personale di tutti i sopravvissuti una sfumatura particolarmente problematica. Si effettuava in due turni, di dodici ore ciascuno, perché non si doveva mai fermare: nella follia nazista, ogni elemento del meccanismo, e soprattutto la sua fase finale, doveva essere ottimizzato, nei tempi e nelle modalità d’esecuzione, ed erano i detenuti stessi che, per paura di essere accusati di “sabotaggio” se rallentavano, nel tempo avevano imparato a mettere a punto le “tecniche” più efficaci: “Dovevamo fare in fretta ed essere efficienti”. Gli uomini del Sonderkommando dovevano gestire ogni aspetto della fase finale: accogliere le vittime, accompagnarle prima negli spogliatoi, dove dovevano aiutarle a spogliarsi velocemente, poi nelle camere a gas, che molti di loro continuavano a credere un luogo dove avrebbero fatto la doccia per la disinfestazione. Poi, ordinare i loro indumenti mentre i nazisti immettevano il gas, estrarre i cadaveri, rimuovere denti d’oro, protesi e, alle donne, i capelli, ripulire tutto l’ambiente, portare i cadaveri nei forni crematori o nelle fosse all’aperto, triturare gli eventuali resti, e infine disperdere le ceneri, perché i nazisti erano ossessionati dall’idea di far sparire le tracce dei corpi. In genere questi uomini, che ad Auschwitz-Birkenau, nel marzo 1943, quando la macchina dello sterminio cominciava a funzionare a regime, erano arrivati a essere circa 400, dopo pochi mesi venivano uccisi a loro volta e subito rimpiazzati.
Un tragico racconto
Con grande sobrietà e una sincerità encomiabile Shlomo racconta anche singoli episodi affiorati alla sua mente e ci rende partecipi delle sue emozioni e dei suoi pensieri. Una miniera di informazioni precise, una raffigurazione “viva” dell’orrore dei campi d sterminio. Dal primo impatto: “Erano talmente numerosi che la fila si snodava come un serpente: mentre i primi entravano, gli ultimi erano un centinaio di metri indietro”. I nazisti infatti volevano che ogni razione di gas uccidesse il numero più ampio possibile di persone. Allo spogliatoio: per molti svestirsi era fisicamente e psicologicamente difficile e aiutarli a far presto significava risparmiare loro l’ultima ingiuria di percosse e violenze aggiuntive. Fino al momento più drammatico: l’apertura e la chiusura della botola da cui le SS immettevano lo Zyklon B, l’orrore al di là dell’immaginabile, nei 10-12 minuti in cui si sentivano ancora urlare e agonizzare le vittime, poi il silenzio: un tedesco che verificava dallo spioncino che fossero tutti morti, poi, ancora, l’apertura della porta, con il pavimento “bagnato di tutto” e i cadaveri ammassati e aggrovigliati l’uno all’altro, da rimuovere velocemente: “La scena che ci si presentava aprendo la porta era atroce, impossibile farsene un’idea”.Nell’ottobre 1944 è ancora lo Sonderkommando che viene incaricato di iniziare lo smantellamento delle strutture interne dei crematori, sempre in quanto gli unici ad averli visti dall’interno. Quando a gennaio i nazisti evacuano Auschwitz sicuramente pensano alla liquidazione di quei testimoni unici, ma buona parte di loro riesce a salvarsi mescolandosi alle colonne di prigionieri avviati alla “marcia della morte”. Mathausen, Melk, Ebensee sono per Shlomo altre tappe dell’inferno nazista ormai allo sfascio, con la consolazione, però, della notizia che anche il fratello si è salvato. Al ritorno, il trauma, comune a tutti, di vedere che non si è creduti, o che la gente non vuole ascoltare: “Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo, non perché non ne volessi parlare, ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano credere”: il primo a cui cominciò a raccontare, un ebreo incontrato all’uscita dall’ospedale dove si era rimesso in sesto, fece ai suoi amici un gesto per dire che lui era matto! Di lì un blocco che si è sciolto solo dopo decenni.Negli ultimi anni è stato fatto molto per sostenere e diffondere la Memoria della Shoa, di fronte ai segnali inquietanti che sono sotto i nostri occhi tutti i giorni. Ma il libro di Shomo, indubbiamente, aggiunge a questo impegno, che è di molti, un tassello unico e determinante.
Note
Il testo integrale dell'articolo non è disponibile on line.Se desideri sottoscrivere l'abbonamento al formato elettronico,
ti preghiamo di contattare l'ufficio abbonamenti: abbonamenti@mosaicodipace.it