Il messaggio di Benazir
La storia del Pakistan è problematica sin dall’inizio, dalla creazione dello Stato dei puri (Pak) nel 1947, uno Stato fondato sull’identità religiosa. La separazione tra puri e impuri e le terribili deportazioni e massacri che l’hanno accompagnata, hanno peggiorato la situazione; ne è prova il fatto che i puri stessi si sono umiliati e ammazzati tra di loro, provocando una seconda separazione tra il Pakistan occidentale e il Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh), senza dimenticare le perpetue tensioni e i periodici massacri tra sunniti e sciiti.
Zulfikar Ali Bhutto, presedente del Pakistan negli anni 1971-73 e poi primo ministro 1973-77, rappresentava una certa speranza: era un politico laico e di tendenza piuttosto sociale in un Paese che è rimasto pluralistico nonostante le separazioni. Il colpo di Stato del generale Zia-ul-Haq e l’impiccagione del presidente eletto democraticamente, Bhutto padre, fu un colpo durissimo contro la fragile democrazia nascente.
Il Pakistan, come l’aveva immaginato il suo padre-fondatore Muhammad Ali Jinnah, malgrado la forte componente religiosa della sua identità, non era uno Stato fondamentalista, ma si basava piuttosto su un tipo di nazionalismo islamico, un certo Islam etnico e sociale.
L’islamismo politico allora non ha conosciuto ancora la sua fioritura, ma come germi di potenzialità esisteva. E con il colpo di Stato militare, le guerre in Afghanistan, la guerra contro il terrorismo, il fondamentalismo ha trovato il suo terreno fertile.
In questo panorama complesso ha vissuto Benazir Bhutto, la cui testimonianza prende corpo e significato.
Era una donna musulmana, la più giovane donna primo ministro nella storia del mondo islamico in due occasioni 1988-90 e 1993-96.
Era sciita in un Paese di maggioranza sunnita, portatrice di una politica e di un discorso non comunitari, ma di portata nazionale per tutto il Pakistan. Non è il fatto di essere sciita che conta veramente, ma la capacità della figlia di una minoranza religiosa di portare avanti un progetto politico non-settario, accettato da un pubblico nazionale misto che cerca uno spazio politico inclusivo.
Il suo meraviglioso coraggio: Benazir, dal primo giorno del suo ritorno in Pakistan dopo otto anni di esilio, era cosciente dei gravi pericoli che circondavano la sua missione e la sua vita. Il messaggio dei criminali era chiaro dall’inizio, dalla strage del 18 ottobre a Karachi (140 morti).
È un martirio cosciente, che non significa che la Bhutto non sperasse in una vittoria politica e in un cambiamento concreto, ma era cosciente dei rischi seri, in una presa di coscienza e di responsabilità storica. Il male, in questo contesto, la dittatura, la corruzione, il terrorismo… prendono potenza dal silenzio dei fattori sociali che possono fare qualcosa, ma esitano o fuggono, preferendo la critica da una distanza sicura. Rompere la barriera invisibile del silenzio e della paura, rischiare la vita, è un atto di amore e di liberazione. Anche quando il sangue del martire (testimone shahîd) viene versato, il suo messaggio rimane: essere liberi è possibile.
Questa presa di coscienza, da un certo punto di vista islamico, si chiama “la posizione di Husayn”, mawqif husaynî. Husayn, il nipote del Profeta Muhammad, dopo la rivincita della controrivoluzione, il regno degli Umeyadi, poteva vivere in pace a Medina, la città santa che non era più il centro del potere già preso da Damasco, ma ha scelto di andare via, di muoversi disarmato con la sua famiglia in Iraq, un atto assurdo dal punto di vista strategico, ma ha voluto che il suo sangue versato a Kerbala sia una luce di speranza e un segno di libertà.
Non voglio trasformare con queste righe Benazir Bhutto in un’icona, o idealizzare la sua immagine, sono lontano da questo; il lavoro storico è capace di analizzare le zone di luce e di ombra nella sua carriera politica, quando era al potere e quando è passata all’opposizione, soprattutto quando governava: cosa ha fatto, cosa poteva fare e non ha fatto, e fino a che punto ha contribuito al verificarsi di questa grave situazione pakistana. Ma nella situazione reale del Pakistan fino al 27 dicembre 2007, il giorno della sua orribile uccisione, Benazir rappresentava il meglio possibile per uscire dal vicolo cieco in cui vive il Paese. Era soprattutto una donna coraggiosa.