IRAQ

Nella terra dei due fiumi

Anche la guerra e le violenze possono divenire un’abitudine. Non per chi le subisce.
Il dramma iracheno, giorno dopo giorno, questioni aperte e nostri coinvolgimenti.
Renato Sacco

Con la sua voce sempre molto calma e serena, mons. Luis Sako, vescovo di Kirkuk, al nord dell’Iraq, mi risponde al telefono la sera del 6 gennaio: “Oggi ci sono stati attentati contro diverse chiese: a Baghdad la chiesa caldea di san Giorgio nel quartiere di Ghadir; poi una chiesa greco-ortodossa e il convento delle suore caldee a Zaafraniya. E a Mosul le autobombe hanno colpito la chiesa caldea di San Paolo, quasi distrutta, l’orfanotrofio gestito dalle suore caldee a Alnoor, una chiesa assira (ricordi? vicino alla nostra casa) e il convento delle suore dominicane di Aljadida. Ma per fortuna non ci sono vittime”.

 Un triste torpore

Sembra un racconto già ascoltato. Le solite notizie di violenze, bombe, attentati... questa volta senza morti. Il rischio (nostro, non certo loro!) è l’abitudine a certe notizie che arrivano dai soliti posti e così la violenza e la guerra diventano quasi normali. Ci si lascia prendere quasi da un torpore da cui è difficile uscire. Solo quando arriva una grossa notizia, allora ci si scuote, per un attimo. Anche per il sottoscritto non è facile scrivere dell’Iraq... perchè si devono dire sempre le stesse cose, da mesi, da anni. Una cosa è certa: se la guerra è stata fatta per le armi di distruzione di massa, si è visto che non c’erano. Se è stata fatta per combattere il terrorismo e il fondamentalismo: prima in Iraq non c’erano, oggi sì. Questa è l’amara verità.

Dopo l’ultima mia visita a mons. Sako, lo scorso mese di agosto, con l’incontro anche con diversi profughi, si sono alternati – nella terra dei due fiumi – momenti di apparente calma a giorni di morte e violenza. Ma la quotidianità della vita è sempre quella: insicurezza e senso di abbandono, uniti a un costo per beni essenziali tutt’altro che basso. La benzina costa quasi un dollaro al litro e non è facile trovarla ai distributori. Ma chi ci guadagna sul petrolio? “La porpora cardinalizia a sua Beatitudine Emmanuel Delly, patriarca caldeo di Baghdad è l’occasione per le Chiese d’Occidente – dice mons Sako –  di mostrare solidarietà verso i cristiani iracheni non solo a parole, ma con i fatti, aiutandoli a rimanere in Iraq e sostenendoli. L’estremismo e la violenza – conclude – non vinceranno mai nel cambiare questa situazione. Dialogare, riconoscere l’altro come un fratello, rispettarlo nella sua diversità salverà il mondo dai conflitti”. 

A questa telefonata con Kirkuk del 6 gennaio, purtroppo se n’è aggiunta un’altra, nel pomeriggio del 9, quando – con il nostro giornale ormai pronto per andare in stampa – veniamo a sapere di due autobomba esplose a Kirkuk, vicino alla chiesa siro-cattolica di St.Ephrem e accanto alla cattedrale caldea, dove abita mons. Sako. Vengono in mente tanti volti amici incontrati proprio in quella cattedrale, si susseguono varie telefonate. Ci dicono che ci sono solo danni alle cose, non alle persone: alcune case lì vicino, il muro e i vetri della Chiesa. “Stiamo tutti bene”, ci dice il Vescovo. Lo risentiamo con più calma il giorno successivo. “Tante persone hanno fatto visita portando la loro solidarietà. Anche i leader musulmani hanno condannano gli attentati”.

 Coinvolti anche noi

Certo questi continui attacchi sono un segnale, anche se non facilmente decifrabile. C’è chi vuole appunto leggervi solo un integralismo fanatico, ma dietro ci sono tante questioni aperte, come la proposta di molti leaders religiosi e politici (fuori dell’Iraq, ad es. Stati Uniti), di “raggruppare, concentrare tutti i cristiani iracheni nella piana di Ninive”. Da molti mesi questa è una questione aperta dentro e fuori l’Iraq. E c’è anche chi spinge per aiutare i cristiani iracheni a lasciare il Paese. La situazione è complessa, e lo è ancora di più se si pensa che i profughi al Nord dell’Iraq risiedono in zone oggetto reiterato di incursioni militari turche e di bombardamenti con l’intento di snidare i terroristi curdi.

Se a questo aggiungiamo anche che l’Italia vende armi alla Turchia, nonostante la legge 185/90, i motivi di preoccupazione e di ulteriore impegno per la pace, contro il commercio delle armi, non mancano.

 

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