Come gironi danteschi
I paesaggi di un moderno dopoguerra sono lande sudice e squarciate e infettate in mille modi, percorse da bande di disperati, delinquenti, mafiosi di ogni sorta. Né si vede scaturire nessun fervore di ricostruzione. Mancano i mezzi elementari, le direttive, i saperi necessari, manca la volontà, l’energia, come raccontano gli psicologi esperti dei traumi di guerra…
Credo che queste parole di Lidia Campagnano (1989-1995 Gli anni del disordine, La Tartaruga Edizioni, 1996) ben descrivano quel che resta come lascito delle guerre moderne, poco importa se condotte in nome del sangue e del suolo, del “diritto umanitario”, oppure ancora a difesa di un sistema di vita che si considera non negoziabile.
Obiettivi militari sono diventati l’economia, le infrastrutture, l’ambiente. E la storia.
Lande desolate
La prima guerra che si è materializzata davanti ai miei occhi senza le lenti dei libri di storia o dei media è stata quella Jugoslava degli anni Novanta. Sono le immagini che porterò per sempre dentro di me delle valli della Kraijna, poco oltre la periferia di Karlovac, delle macerie e della devastazione casa per casa, fra i cui squarci potevi ancora intravedere le pentole sulle stufe, segno di una fuga precipitosa.
I segni delle culture degli “altri” (le biblioteche, i luoghi di culto…) andavano cancellati, fin dalle fondamenta. Così il miliziano nazionalista si ritrova a contemplare “il luogo dell’origine e scopre di averne fatto un deserto, deserto di relazioni, di cose, di attività…” (Lidia Campagnano).
Le città e i villaggi diventano cumuli di macerie (si sono stimate 500 mila case distrutte nella sola Bosnia Erzegovina) e di immondizie, le aree industriali rovine degne di gironi danteschi, i corsi d’acqua vere e proprie discariche, i laghi – spesso artificiali – diventano luoghi lugubri e paludosi. Quando l’imperativo è cancellare e arricchirsi, anche l’abitazione più sperduta in cima a una collina diventa preda interessata di squadre d’assassini professionali, dedite al furto e allo stupro. Seguite da schiere di “normali” profittatori. Giacomo Scotti in “Croazia, Operazione Tempesta” (Gamberetti Editrice 1996) racconterà di come a Spalato fosse diventato quasi uno sport fare lo shopping nelle case abbandonate di Knin e dintorni. Si lascia anche un ricordo, a futura memoria. Ecco che i fiori, di cui prima erano ricolmi i giardini, lasciano il posto all’insidia delle mine. Che ritroviamo pure nelle aree rurali, così da scoraggiare la ripresa del lavoro nei campi o nei boschi, ancora una volta non per motivi di strategia militare, ma perché da sempre l’economia del bosco è fonte di sostentamento per le popolazioni locali che ne ricavano legna da ardere o da lavoro, selvaggina, funghi, erbe e frutti di bosco.
Le mine hanno proprio la funzione di una guerra che si continua a combattere anche dopo il cessate il fuoco, un’onda lunga per annichilire il nemico e scoraggiarne il ritorno.
Nel marzo 1996, ai bordi delle strade che attraversano l’altipiano del Grmeć (Bosnia Erzegovina), a dispetto della particolare bellezza dei luoghi, si alternavano le carcasse dei veicoli militari e quelle degli elettrodomestici caricati disperatamente all’atto della fuga ma troppo ingombranti per le colonne di profughi alla ricerca di un riparo. E poi ancora macerie e tizzoni bruciati di quelle che un tempo saranno state fattorie. Lungo la strada verso Sanski Most avvallamenti o doline carsiche delimitate con del nastro diverso da quello usato per indicare le zone minate, senza segni particolari. La terra mossa o le foibe restituivano piano piano i corpi dei massacri. Nell’area di Prijedor e di Sanski Most verranno localizzate ben quarantaquattro fosse comuni.
Quando ti avvicinavi ai centri abitati, incuriosiva il particolare accanimento riservato agli edifici storici, ai luoghi pubblici, laici o religiosi, ai memoriali dei partigiani e ai cimiteri. Tutto intorno il silenzio.
Deregolazione
La guerra rappresenta un contesto di deregolazione estrema, dove proliferano traffici d’ogni genere. I signori della guerra non sono guerrieri, uomini d’affari piuttosto. Nell’impossessarsi dei conti correnti bancari, nel distruggere i catasti per non lasciare traccia delle vecchie proprietà, nel far firmare in bianco la cessione dei beni di persone internate in cambio della loro liberazione dai campi di concentramento, nei fiorenti commerci dei bottini di guerra, nei traffici illeciti o di beni sottoposti a embargo internazionale. Una scuola per imprenditori d’assalto.
Costoro non amano il suolo di cui pure si fanno paladini. Vecchie miniere vengono silenziosamente riconvertite in discariche di rifiuti tossici provenienti da ogni dove (compresa la civile Italia). Boschi di legno pregiato depredati grazie alla preziosa connivenza di funzionari che chiudono un occhio (o tutti e due) sull’ammontare del tagliato. Denaro di dubbia provenienza riciclato nel proliferare dei casinò, dei bordelli e dei centri commerciali. Grazie a una privatizzazione che coinvolge vecchie burocrazie e imprese multinazionali, vengono riattivati vecchi impianti che inquinavano prima della guerra, figuriamoci ora. Il resto lo fa una delocalizzazione senza scrupoli, dove sono rimessi in produzione macchinari desueti e fuori norma nell’Unione Europea, trasformando così un costo d’impresa in rendita.
Marginalità? Niente affatto. La deregolazione è la cornice che fa da sfondo ai processi della postmodernità.
Uranio umanitario
Se la guerra è l’assenza di regole per eccellenza, come stupirsi dell’uso di strumenti di morte banditi dai codici internazionali? I “liberatori” del Kosovo avevano così a cuore il destino di questa terra da avvelenarla per sempre.
L’uso da parte della Nato di decine di migliaia di proiettili o missili arricchiti di uranio impoverito ha disseminato il Kosovo e la Serbia (e, seppure, in misura minore anche la Bosnia Erzegovina) di un veleno che non potrà essere bonificato (anche perché negato per anni) e le cui conseguenze epidemiologiche sulla popolazione locale sono difficilmente calcolabili. Ne vediamo gli effetti sui militari italiani che sono entrati in contatto con le polveri dei siti bombardati (o dei poligoni di tiro dove si è fatto uso di uranio impoverito), tanto che i dati ufficiali dello stesso Ministero della Difesa stimano in oltre 250 le vittime del linfoma di Hodgkin o di patologie analoghe che hanno portato alla morte di non meno di cinquanta soldati italiani.
Poco si sa delle conseguenze sulla popolazione civile. Un silenzio che investe spesso anche le autorità sanitarie locali, forse per non creare il panico nella popolazione che questi siti li continua ad abitare visto che quella è la loro unica terra.
Ciò nonostante qualche dato emerge, come quello che qui riportiamo relativo ai bombardamenti Nato del 1995 sulla cittadina di Hadzic, non lontano da Sarajevo, la cui popolazione di nazionalità serba si è rifugiata a Bratunac. Un dato impressionante.
Altrettanto emblematico il caso della città industriale di Pancevo, a soli 17 km da Belgrado. Il suo impianto petrolchimico (gemello di quello di Porto Marghera) e altri impianti industriali hanno subito nel 1999 quattordici bombardamenti con il conseguente “rilascio nell’ambiente di 2.100 tonnellate di cloro etilene, 250 tonnellate di ammoniaca, 8 tonnellate di mercurio e 460 tonnellate di CVM e, ancora, cloro, ossidi di zolfo e di azoto. Inoltre il bombardamento della raffineria presente nel comparto industriale si stima che abbia determinato la combustione di circa 80.000 tonnellate di petrolio e suoi derivati. Durante uno di questi bombardamenti, il 18 aprile, si rese necessario evacuare 80.000 abitanti di Pancevo e dintorni a causa del formarsi di una nube tossica levatasi dagli impianti colpiti. È stato stimato dall’UNEP che conseguenza di questi bombardamenti sia stato il rilascio in atmosfera, nei terreni e nei fiumi di diossine e altre sostanze tossiche e cancerogene che hanno avvelenato e determinato conseguenze sanitarie a tutt’oggi non completamente note negli abitanti di quel territorio e che, si ritiene, perdureranno nei prossimi anni” (Andrea Mengozzi, Pancevo: nuovi strumenti per misurare la qualità dell’aria - Osservatorio sui Balcani).
Analoghe considerazioni si potrebbero fare per gli effetti del bombardamento con missili arricchiti di uranio impoverito sull’industria Zastava di Kragujevac. La Zastava è Kragujevac, il cuore della sua vita economica e sociale se pensiamo che prima della guerra occupava 37 mila dipendenti. Colpita in forma devastante da due bombardamenti, molti operai accorsero alla ricostruzione, rimovendo le macerie contaminate. Negli anni successivi si è assistito alla morte per leucemia e altre forme di carcinoma di molti dei lavoratori che parteciparono al risanamento dei capannoni industriali (Morire di Zastava, Osservatorio sui Balcani – www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3068).
Effetti collaterali
L’impatto ambientale delle guerre ha tante altre facce. Pensiamo allo spostamento di masse di sfollati e profughi e alle conseguenze sul piano ambientale connesse all’emergenza, ai fenomeni di forte inurbamento e alla crescita a dismisura delle periferie. Mi riferisco, ad esempio, al livello di speculazione edilizia che la ricostruzione in Kosovo ha comportato, sotto gli occhi benevoli della comunità internazionale. Forse non sta bene dirlo, ma dalle macerie di una guerra internazionale e del passaggio devastante di due opposte pulizie etniche, nelle città di questa piccola regione è nata un’“urbanistica postbellica” fatta di palazzine tanto kitsch quanto impattanti, estranee alla tipologia architettonica precedente e a una pianificazione urbana degna di questo nome.
Il mattone, qui come altrove, è un investimento molto redditizio se pensiamo che il valore commerciale del costruito, a Pristina come a Belgrado, non è poi tanto diverso da quello delle nostre città.
Altra questione, di particolare e drammatica attualità, è quella che riguarda la gestione dei rifiuti, emergenza generalizzata nei Balcani, aggravata ovviamente dove la guerra ha lasciato più il segno. Dobbiamo sapere che lo smaltimento dei rifiuti è avvenuto per anni e spesso ancora avviene per strada o nei cassonetti, semplicemente bruciandoli perché non c’è nemmeno il sistema di raccolta. Questo vale anche per le discariche – talvolta realizzate nei pressi di corsi d’acqua – che bruciano in continuazione a cielo aperto.
O, ancora, al più importante ecosistema europeo, quello danubiano, che ha subito in questi anni lo sversamento di veleni di ogni tipo… Al business dell’irreggimentazione delle acque (di cui è ricchissima la Bosnia Erzegovina) e della costruzione di dighe che provoca pesanti conseguenze ambientali e climatiche… L’inquinamento di aree metropolitane come Belgrado che ha raggiunto livelli patologici grazie a un insieme di fattori che investono i sistemi di riscaldamento, la vetustà dei trasporti pubblici e privati, l’obsolescenza di sistemi industriali... Conseguenze dirette o indirette delle guerre che hanno segnato pesantemente la regione.
Altri scenari, altre latitudini, potrebbero raccontarci storie in fondo non molto diverse. Ho preferito parlare dell’impatto della guerra nei Balcani perché è quello che abbiamo più di altri rimosso nonostante avvenisse sull’uscio di casa, nel cuore della nostra Europa.