Una pattumiera globale

Tutto ciò che si nasconde dietro lo smaltimento dei rifiuti: business, manovalanze, investimenti che si muovono nel sottobosco della politica e della finanza. E a pagarne il prezzo è l’ambiente. E il Sud del mondo.
Luciano Scalettari (Famiglia Cristiana)

Il problema principale di questi enormi movimenti di rifiuti era trovare lo Stato che accettasse di fare da ‘pattumiera’. Lo Stato chiedeva necessariamente cose in cambio. Per quanto riguardava gli Stati africani in cambio venivano di regola chieste armi, ma in certi casi anche soldi. È un passo tratto da un’intervista realizzata nel 2000 da chi scrive insieme ai colleghi Barbara Carazzolo e Alberto Chiara per Famiglia Cristiana a un ex trafficante di rifiuti, che operava all’interno di un’organizzazione potente e ramificata. Un’affermazione emblematica, che sintetizza alla perfezione il sistema criminale dei trafficanti di materiale tossico-nocivo, che si può riassumere in pochi semplici assunti: smaltire i rifiuti pericolosi nei Paesi sviluppati costa un mucchio di soldi; il sistema industriale, eliminandoli a poco prezzo, contiene le spese e risulta competitivo; lo smaltimento illegale diventa via via più rischioso negli stessi Paesi industrializzati; sui rifiuti più redditizi e inquinanti vale la pena, per il largo margine di lucro, di organizzarne l’invio nei Paesi poveri, instabili, soggetti a sistemi dittatoriali e ad alto tasso di corruzione. E il gioco è fatto.

Un Sud per tutti
Gli episodi di cui parla il pentito sono avvenuti a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Ma nelle diverse inchieste giornalistiche condotte con i miei colleghi sul tema, abbiamo ritrovato descritto lo stesso sistema, le stesse dinamiche, gli stessi tipi di organizzazione, coperture, collusioni. Uno scenario inquietante, che delinea sistemi criminali complessi, business ingente, una rete sorprendente di figure delinquenziali che mette insieme la manovalanza di basso livello e la potente criminalità organizzata, il sottobosco della politica e i colletti bianchi che muovono investimenti e capitali. Il tutto per realizzare operazioni a basso rischio, dal punto di vista giudiziario, ma a gravissimo danno per le conseguenze ambientali, specie di medio e lungo periodo.
È un meccanismo perverso, che utilizza i Paesi più accessibili – quelli del Sud del mondo – come pattumiera dei Paesi industrializzati. Il meccanismo è evidente: i Paesi ricchi hanno grandi quantità di rifiuti. In patria non si possono o non si vogliono smaltire, non solo per gli alti costi ma anche di consenso elettorale, perché nessuno vuole una discarica sotto casa.
I Paesi poveri e in situazione di conflitto hanno spesso bisogno di soldi e di armi, il territorio è poco controllato, il sistema sanitario non garantisce un efficace monitoraggio in caso di conseguenze da inquinamento, i leader politici o i funzionari spesso sono corruttibili. E per la buona riuscita delle operazioni illecite, basta ottenere che venga messo a disposizione qualche francobollo di territorio semidisabitato.

Il viaggio dei veleni
C’è un problema giudiziario: occorre l’inasprimento delle pene, nei singoli Paesi, e insieme accordi internazionali che rendano uniformi le legislazioni e le procedure. Perché si tratta di far fronte a organizzazioni che traggono guadagni ingentissimi rischiando poco o nulla. Secondo i dati del Rapporto Ecomafia 2007, realizzato dall’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente, il giro d’affari italiano delle ecomafie “ha raggiunto la cifra record di 23 miliardi di euro” come scrive il responsabile Enrico Fontana, ed è cresciuta “a 26 milioni di tonnellate” la quantità di rifiuti speciali, pericolosi e tossici di cui si perdono le tracce. Solo in Italia. Naturalmente non tutti vanno a finire nei Paesi poveri, anzi, la gran parte finisce nelle nostre discariche o in terreni agricoli.
Solo una piccola porzione prende rotte internazionali, ma è probabile che si tratti dei più inquinanti, che sarebbe rischioso smaltire sotto casa. Quanto alla redditività, si stima che sia al terzo posto, inferiore solo alle droghe e alle armi: una nave di scorie può valere anche dieci milioni di dollari. E, tra l’altro, spesso questi traffici si associano proprio a questi stessi affari illeciti, utilizzando i medesimi canali e organizzazioni. Spesso legati alla criminalità organizzata, com’è noto.
Non solo. C’è un livello finanziario e imprenditoriale “insospettabile”, che spesso si trova alla testa della cupola dello smaltimento illegale: Come sta scritto nell’ultima relazione della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, “non è la sola criminalità organizzata a operare in modo illegale. Esistono infatti società commerciali o imprese non legate ad essa, ma che hanno come ‘ragione sociale’ la gestione illecita dei rifiuti, soprattutto di origine industriale”.
C’è di più: “Ad alimentare il mercato illecito sono anche industrie a rilevanza nazionale e internazionale, comprese aziende a rilevante partecipazione di capitale pubblico. Per tutte il minimo denominatore comune è la ricerca dello smaltimento al minor costo, senza alcun controllo sulla destinazione finale del rifiuto”.
Il fenomeno è relativamente recente: solo dalla fine degli anni Ottanta che si è focalizzato in tutta la sua gravità, in seguito a episodi eclatanti: l’incidente di Seveso del 1976, il disastro di Bhopal in India, Chernobyl, le “navi dei veleni” (a fine anni Ottanta furono individuate, in pochi mesi, ben cinque carrette del mare cariche di rifiuti tossici dirette nei Paesi in via di sviluppo). Una serie di fatti che ha portato 130 Paesi, nel 1989, a firmare il trattato di Basilea, entrato in vigore nel 1992. Un passo avanti, perché l’accordo internazionale vieta qualsiasi tipo di esportazione di rifiuti non riciclabili verso i Paesi non Ocse, cioè verso i Paesi poveri. Il problema è che il trattato è stato accolto nelle leggi nazionali con pene così esigue da mantenere comunque molto “appetibile” per i trafficanti il business-rifiuti.
Dal punto di vista organizzativo, il traffico internazionale di rifiuti tossici o radioattivi non è questione semplicissima. Si tratta di mettere insieme una filiera di figure, mezzi e strutture complessa. Il rifiuto dev’essere individuato, prelevato, trasportato su strada, fatto passare attraverso dogane di partenza e d’arrivo, caricato su navi o aerei, fatto giungere a destinazione, versato in mare o seppellito. Nella maggior parte dei casi, si tratta di movimentare container. Occorre un’organizzazione articolata: il solo trasferimento materiale del rifiuto prevede l’impiego di camion, navi, luoghi sicuri di stoccaggio, talvolta la disponibilità di mezzi di scavo. Il percorso dev’essere sicuro da controlli in partenza e in arrivo (è inevitabile la corruzione o la complicità di funzionari e organi di controllo). Infine, dev’esserci una struttura finanziaria e societaria in grado di garantire fidejussioni, coperture assicurative, pagamenti estero su estero, riciclaggio del denaro sporco introitato.
Ecco perché la rete di complicità risulta tanto stratificata: dal “colletto bianco” al sottobosco della politica, dalla banca compiacente al faccendiere, dall’imprenditore senza scrupoli al logista che coordina “in loco”. Con la copertura, com’è emerso da diverse indagini di magistratura, di ambasciate, uomini dei servizi segreti, istituzioni dello Stato.

Immondi traffici
Le prove del traffico non sono facili da ottenere. E spesso chi organizza le “spedizioni di veleni” è abile a mettere in atto cortine fumogene di legalità attraverso documentazione falsa o contraffatta o progetti fasulli di riciclaggio dei rifiuti nei Paesi del Sud del mondo. Come sottolinea la stessa Commissione parlamentare: “L’operazione di smaltimento dei rifiuti è coperta da una ‘facciata’ legale che risulta essere l’investimento nazionale e internazionale per la realizzazione di unità industriali al fine del trattamento dei rifiuti, ottenuta con autorizzazioni avute anche tramite un’attività se non corruttiva quanto meno ‘compiacente’ di esponenti legati al potere politico”.
Le organizzazioni criminali si premurano di avere nel Paese industrializzato di partenza, alcune autorizzazioni per lo smaltimento legale nel territorio nazionale. Si collegano poi a società autorizzate all’esportazione all’estero di materie prime o di materiali riciclabili. Infine, operano nel Paese di destinazione per ottenere la concessione a realizzare uno stabilimento chimico o un inceneritore, magari finalizzato alla produzione di energia elettrica. Progetti che sono destinati a rimanere sulla carta, ma che permettono ai criminali di difendersi efficacemente in tribunale. Ad esempio, il sistema è stato tanto utilizzato in questi anni, che la Somalia dovrebbe avere almeno cinque o sei inceneritori e fabbriche chimiche. Che ovviamente non ha.
Il problema più grave è che il carico inquinante seppellito nella discarica abusiva è una bomba a orologeria: presto o tardi inquinerà e danneggerà la salute e l’ambiente. Non sappiamo quante bombe a orologeria siano sparse per il pianeta, e spesso sono sepolte dove non c’è un sistema sanitario che ne possa rilevare gli indizi di pericolo. Spesso gli organi d’informazione non ne danno notizia, ma già ora, spulciano le agenzie, sono tante le brevi che segnalano qua e là strane morie di animali o di pesci, casi di intossicazioni o di persone morte per “ragioni non chiarite”, passaggi di rapporti di medici di organismi non governativi che sottolineano l’eccessiva ricorrenza di patologie neonatali, cancri tiroidei, leucemie e malformazioni pressoché sconosciute in Paesi poveri.
Il tema è quanto mai attuale. Le bombe continuano ad essere collocate. Nel 2005, la Commissione rifiuti scriveva: “L’intersezione, talvolta, con vicende belliche di risalto internazionale e che hanno portato organismi sovranazionali a intervenire in maniera diretta, fanno ritenere che alcune di queste operazioni siano gestite, coordinate o comunque conosciute da apparati governativi”. In altre parole: difficile pensare che nessuno se ne accorga. Più facile dedurne che non è interesse dei governi stroncare questi immondi traffici.

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