Nel giardino di Eden
La spiritualità cristiana usa il termine “pace” con molti significati, riconducibili però al concetto di “relazione”, anzi di “relazione felice”.
Vi è anzitutto la relazione con se stessi, la cosiddetta “pace del cuore”: sentirsi bene nella propria pelle, accogliere con cordialità il proprio corpo e le situazioni concrete di vita, dare un senso compiuto e appagante all’esistenza. Forse questo è il significato più comune della parola “pace” in ambito cristiano. A fondamento di un felice rapporto con se tessi, la spiritualità cristiana pone una intensa relazione con Dio: se ci si lascia invadere dalla luce e dall’amore di Dio, non ci si sente più soli, in balia di un fato capriccioso, ma accompagnati e sorretti dalla forza del suo Spirito.
Le dimensioni della pace
A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, si è andato sempre più diffondendo il significato sociale e politico della parola “pace”.
L’amore di Dio non può esaurirsi nell’intimità dei cuori, esso deve riversarsi nelle relazioni quotidiane con gli altri e soprattutto nelle strutture politiche e sociali del mondo.
La settima beatitudine di Matteo 5 non viene più letta come “beati i pacifici”, ma come “beati gli operatori di pace”. Lo Spirito invita il cristiano a impegnarsi per il disarmo, la nonviolenza, il dialogo tra i popoli, contro la corsa agli armamenti, le ingiustizie sociali, le guerre.
Più recentemente, una nuova dimensione arricchisce il vocabolario della pace: la natura.
L’umanità si scopre in relazione non solo con se stessa, ma anche con l’ambiente non umano circostante. È sempre stato così, l’uomo ha sempre respirato aria e bevuto acqua, ma fino a qualche decennio fa non se ne percepiva l’importanza. Il deteriorarsi dell’ambiente naturale, a seguito della cultura antropocentrica sorta in epoca moderna che ha trovato un alleato formidabile nelle nuove tecnologie, ha posto in primo piano la necessità di ripensare il rapporto umanità-natura. Esso non può venire abbandonato agli appetiti momentanei dell’uomo, ma va riempito di significati e di valori.
Anche il cristianesimo si sente interpellato, a livello teologico, etico e spirituale. Si tratta di riscoprire la natura come “creato”, cioè dono scaturito dall’amore di Dio, e noi stessi come “creature”, anzi “co-creature”, necessariamente collegate con tutte le altre creature da una serie di rapporti che vogliamo i più felici possibile.
La pace nella natura
La tradizione ebraico-cristiana ha visto nella pace della natura un segno messianico, cioè la realizzazione di un “sogno” di Dio. L’amore di Dio non è rivolto solo all’umanità, ma a tutta la realtà e tutta la realtà è chiamata a salvezza. C’è un progetto di Dio su tutte le cose.
Guardiamo, ad esempio, il mondo nella prospettiva del primo racconto di creazione (Genesi 1,1-2,4a). Tutto è bello: la luce, l’acqua e la terra, l’erba e gli alberi, il sole e la luna, i pesci e gli uccelli, gli animali terrestri, la coppia umana. Nessuno per vivere deve spargere il sangue altrui: tutti gli animali mangiano erba o frutti o semi. Anche il secondo racconto di creazione (Genesi 2,4b-25) parla di bellezza: Adamo ed Eva vengono posti nel giardino di Eden, il paradiso terrestre. Sarebbe un errore leggere questi testi come la descrizione di un avvenimento passato o il rimpianto di una felicità perduta per sempre. Non sono testi né storici né scientifici, ma simbolici, che illustrano il progetto di Dio sul mondo. Esso non è uscito “bello” dalle mani di Dio e poi è stato irrimediabilmente rovinato dal peccato: questo mondo è dinamicamente destinato alla bellezza e alla pace, attraverso l’azione dello Spirito e la collaborazione (incosciente o consapevole) delle creature. Il cristiano è chiamato a “creare” con Dio la bellezza e la pace nel mondo.
La prospettiva messianica appare ancora più evidente in Isaia 11,1-9: nel tempo della salvezza tutti convivranno pacificamente (il lupo e l’agnello, la pantera e il capretto, il vitello e il leone, la mucca e l’orso, il lattante e la vipera) e anche il leone non ucciderà più perché mangerà l’erba.
Un mondo pacificato, anche nelle relazioni naturali, è la cifra della salvezza. Il credente in Gesù, il Messia, non può ignorare la dimensione “ecologica” della redenzione. Ogni offesa alla natura (inquinamento o sfruttamento) è tradimento della fede cristiana, ogni contributo alla felicità delle relazioni naturali è realizzazione delle promesse messianiche, cioè attuazione della redenzione cosmica di Cristo. La croce di Cristo non è un amuleto magico; essa indica il metodo di Dio per la salvezza del mondo: amare la totalità degli esseri fino all’oblio di se stessi, affinché tutto sia felice.
San Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma (Romani 8, 18-22), illustra bene il vortice di salvezza cosmica innescato da Cristo: tutta la creazione “geme”, cioè tende con dolore e dolcezza insieme, verso la libertà di un mondo nuovo, generato nella fatica dei secoli, ma sostenuto dal “gemito” stesso dello Spirito (versetto 26). È certamente eccessivo attribuire a Paolo una visione evoluzionistica della realtà, ma la prospettiva qui tratteggiata non è quella di una salvezza statica, data una volta per sempre, ma di un cammino sul quale l’azione di Dio e la risposta delle sue creature si incontrano per mirare verso orizzonti di bellezza e di pace.
La pace con la natura
Tra tutte le creature, l’umanità gioca un ruolo centrale, in forza della sua autocoscienza. A volte rischia di usare male il suo potere: per rovinare, invece che favorire, la felicità delle relazioni naturali, danneggiando, poi, in definitiva, anche se stessa. Abbiamo bisogno di una vera “conversione ecologica” (Giovanni Paolo II), affinché la salvezza di Cristo possa manifestarsi in tutta la sua estensività. Il Vangelo di Marco (Marco 1,13) annuncia il compito del Messia come quello di una pacificazione universale, nella prospettiva di un mondo paradisiaco dove uomini, bestie e angeli convivono felicemente. Non è una fantasia, ma un progetto. Gli assi portanti, culturali e spirituali insieme, di tale progetto sono tre: la retinità, la finitudine, il futuro.
Il neologismo “retinità” indica la complessità dei rapporti che sostengono la rete della vita e della natura. Gli equilibri naturali sono complicati e delicati. Per un cristiano ciò non sorprende. La complessità delle relazioni fa parte della vita stessa intima di Dio, la Trinità, e quindi l’opera creativa di Dio non poteva non rispecchiare la sua natura. Complessità non significa complicazione o confusione, ma interdipendenza e relazionalità. Insieme allo stupore di fronte ai meravigliosi equilibri naturali, siamo chiamati alla ricerca appassionata di una conoscenza sempre più corretta del loro funzionamento e all’impegno perché siano ovunque salvaguardati.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso si pensava che il mondo fosse comunque troppo grande rispetto alle possibilità umane di sfruttamento e che quindi fosse praticamente infinito. Un’idea falsa e dannosa. Falsa perché, ovviamente, il mondo è limitato e finito, dannosa perché ha generato una economia dello sfruttamento e della crescita illimitata, che sta pericolosamente esaurendo le risorse del pianeta.
Viviamo in un mondo finito.
Abbiamo a disposizione una quantità limitata di acqua, di aria, di petrolio, di metalli: non possiamo continuare a usarne e abusarne come se fossero infiniti. È la riscoperta della sobrietà e della moderazione. Per un cristiano tutto ciò ha un nome: la povertà. La povertà non è miseria, ma rispetto per le cose e loro uso responsabile. La povertà evangelica è beata perché pone la felicità non nel possesso, ma nella condivisione, non nell’accumulo dei beni materiali, ma nella crescita di quelli relazionali.
La necessità della povertà risalta ancora di più nella considerazione del futuro. Se le risorse del mondo sono finite, occorre gestirle con oculatezza, affinché il capitale naturale resti intatto anche per le generazioni future. Sarebbe somma ingiustizia depauperare i nostri nipoti per arricchire noi. Nel linguaggio ecologico si usa il termine “sostenibilità” per indicare la durevolezza dei beni, nel linguaggio cristiano si chiama “carità”. L’amore cristiano non termina alle relazioni quotidiane del credente e neppure a quelle sociali, ma penetra nel mistero estremo della storia: ama il futuro, le generazioni che ancora non esistono, le sorti della terra a venire. Questo amore universale nello spazio (tutti i popoli) e nel tempo (presente e futuro) allarga il cuore del credente alle dimensioni del cuore stesso di Dio e costituisce un preciso vincolo etico per le scelte economiche e sociali.
Lo sperpero è un peccato di cui Dio ci domanderà conto: uomo, donna, che mondo hai preparato per tuo fratello?