Una carovana nomade
Oltre le barriere del tempo e delle culture, per superare le paure del diverso.
Perché lo straniero abbia posto alla nostra tavola.
Quando la prima carovana di zingari fa la sua comparsa alle porte di Parigi, domenica 17 agosto 1427, appare a tutti come una inquietante incarnazione del male o come una smorfia di paura che arriva dalle distese sconosciute della campagna. Ufficialmente si presentano come pellegrini cristiani costretti alla fuga dai Saraceni, ma i volti ruvidi e secchi come olive nere, le mani delle donne ingioiellate di rame, i pendagli alle orecchie dei bambini accendono la diffidenza della “diversità”: l’immaginario popolare del XV secolo è troppo grezzo per ammettere trasgressioni e fantasie.
Gli zingari non potevano che essere espressione di minaccia e di insidia. In una fantasia collettiva, che si era nutrita di demoni, di streghe, di sabba e di lebbrosi, quelle carovane di sconosciuti neri apparivano come un nuovo peccato, un morbo inquietante che insidiava la santità dell’ordine. Se la psicologia di massa era un terreno fertile per suscitare rifiuti e demonizzazioni, altre ragioni politiche ed economiche concorrevano a fare dei gitani degli emarginati.
Suscitare l’opposizione dello Stato, della Chiesa e delle corporazioni significava ovviamente non trovare spazi di tolleranza e di legittimazione.
E allora... dopo poche settimane il vescovo di Parigi manda nel campo di Saint-Denis un frate minore, chiamato il “piccolo Jardoin”, che parla agli zingari “in nome di Dio e di Nostra Signora”: per tutti coloro che hanno rubato o letto la mano c’è la scomunica, con l’ordine tassativo di andarsene entro un giorno.
L’indomani “con l’urlo disperato delle donne nere” la carovana si allontana e riprende la strada e la storia del suo rifiuto.
Paure
Ho scelto il brano di un cronista tardomedioevale per evidenziare come culturalmente ci troviamo ancora oggi di fronte agli stessi problemi di un tempo rispetto all’inquietante “masso erratico” costituito dalle comunità nomadi. Non vi sono più le corporazioni, la Chiesa e lo Stato che danno l’ostracismo agli zingari, ma vi è, ancora più complessa, una opinione pubblica, frutto di una cultura ben radicata che, se non espelle i nomadi in nome di Dio, tuttavia li guarda con sospetto e crea attorno a loro una barriera di isolamento e di rifiuto.
La paura è la porta che ci rinchiude nelle nostre case, nei nostri fastidiosi problemi quotidiani, nelle nostre piccole o grandi depressioni. E con la paura ecco la mancanza di sicurezza. Certamente l’insicurezza è il filo rosso che unisce molti avvenimenti della cronaca quotidiana e molti eventi che compongono il nostro mondo interiore.
Insicurezza come frutto del malessere contemporaneo: insicurezza del lavoro e del domani, delle relazioni e delle appartenenze, della vita e della morte, del bene e del male in una sorta di relativismo confuso e paralizzante. Non è il caso di introdurre l’argomento dei tentativi di suicidio, anche tra le giovani generazioni, per documentare la fatica e l’angoscia del vivere, che niente altro sono che variazioni sul tema dell’insicurezza personale.
Viene da pensare, quindi, che la vera insicurezza, tuttavia, sia quella interiore che trova proiezioni all’esterno solo nella ricerca di un anestetico dello spirito o di un capro espiatorio, facilmente ravvisabile in chi è diverso, in chi diversamente vive, ama e crede.
Oggi tocca ai nomadi, rom o sinti che siano; agli stranieri, regolari o clandestini; a chi è senza lavoro o senza casa perché messo nella condizione di essere bollato come un possibile candidato a delinquere.
Insomma, non vorrei pensare che oggi tocchi, più di ieri, ai poveri essere al centro delle paure e delle insicurezze di chi ritiene di essere forse un po’ più ricco non solo economicamente, ma di cultura e di relazioni. Insomma non vorrei credere che ancora una volta per le nostre paure e per i nostri sospetti “domani la carovana dei poveri debba riprendere la strada del rifiuto e dell’esilio”.