Ferite ancora aperte
Responsabilità locali e internazionali.
Sono stato ancora una volta in Burundi ospite della missione collegata alla diocesi di Ivrea, dove sono a contatto con giovani studenti, a cui parlo un po’ della storia della filosofia occidentale. È singolare questo piccolo Paese al centro dell’Africa, lontano dal mare e dalle vie di grandi traffici o delle grandi risorse minerarie, quindi meno sollecitato a grandi contatti umani o a rapidi sviluppi tecnologici. Abitato nei tempi preistorici dai Pigmei (o Batwa, dove il Ba iniziale è l’indicazione degli esseri umani, come il Bu dei territori e il Ki del linguaggio, che è il Kirundi), ridotti oggi al due-tre per cento, fu poi occupato dai Ba-hutu, provenienti da occidente (dal Congo) che costituiscono circa l’ottantacinque per cento dei Barundi, cioè dei circa sei milioni di abitanti, e sono detti i “corti” a confronto dei “lunghi”, provenienti dal Nord risalendo il Nilo (Uganda, Etiopia), i Ba-tussi (i nostri leggendari Watussi), circa il quindici per cento della popolazione. La norma era che, emarginati i Batwa, gli Hutu coltivassero la campagna e gestissero il culto, mentre i Tutsi si interessavano della pastorizia e dell’amministrazione pubblica e dell’esercito.
Dopo l ’indipendenza
L’equilibrio era garantito dal re, un Tutsi che sposava delle Hutu, costituendo così una specie di etnia mediana (i Ba-gamwa). L’arrivo degli Europei, alla fine dell’ottocento (erano Tedeschi, poi sostituiti dai Belgi dopo la prima guerra mondiale), provocò i primi squilibri, dato che si appoggiarono ai Tutsi per l’amministrazione della colonia, e finirono col privare gli Hutu del loro prestigio religioso.
Dopo l’indipendenza, giunta negli anni sessanta,
la repubblica democratica mise in evidenza la sproporzione delle etnie. I Tutsi al potere, temendo le rivendicazioni degli Hutu, installarono successive dittature e, nel 1972, provocarono un primo eccidio degli Hutu più in vista per prestigio o per cultura (si parla di oltre duecentomila uccisi). Sollecitazioni esterne portarono a successivi tentativi di democratizzazione, attraverso elezioni che, nel 1992, portarono alla presidenza un Hutu. L’assassinio di questo presidente suscitò una sollevazione hutu con eccidio indiscriminato di Tutsi (anche da parte di maestri verso alunni o di compaesani verso chi era stato il giorno prima a Messa insieme!).
Il successivo presidente hutu tentò accordi col vicino Ruanda, dove gli Hutu erano giunti al potere. Siglarono un accordo in Tanzania, ma l’aereo che li riportava in Ruanda venne abbattuto da un missile poco prima che atterrassero. Questo suscitò in Ruanda la sollevazione degli Hutu estremisti, con stragi di Tutsi e di molti Hutu accusati di moderazione e di trattative con i Tutsi, e nuove sollevazioni anche in Burundi. Gli eccessi furono tali che portarono a reazioni, anche in campo internazionale, con installazione in Ruanda di un governo gestito dai Tutsi e, in Burundi, con interventi dell’esercito, in mano ai Tutsi, sulla popolazione civile, a scopo repressivo o intimidatorio. Ora in Burundi successivi accordi, sponsorizzati da Paesi africani (soprattutto dalla Tanzania), hanno portato a un governo misto, con Presidenza alternata tra un Tutsi e un Hutu, ma con l’esercito e l’amministrazione centrale praticamente in mano ai Tutsi e con forze di guerriglia tuttora in atto.
Equilibri a rischio
Un recente accordo tra alcune di queste forze e il governo faceva sperare tempi di pace, ma la parte dei guerriglieri che non ha firmato (e talora – pare – anche alcuni che hanno firmato ma che hanno la loro base in Paesi vicini) si fa ancora viva con rapine nel territorio e, nel mese di luglio, con attacchi alla stessa capitale (pare con trecento morti tra guerriglieri e civili, dato che non si hanno cifre riguardanti l’esercito). La situazione è tuttora incerta, sia per la presenza di questi guerriglieri (non facilmente individuabili perché mescolati alla popolazione) sia per soprusi addebitati all’esercito o per la corruzione imputata ai gestori del potere.
L’equilibrio è talmente instabile e le ferite del passato talmente aperte (per le crudeltà compiute e per vendette personali difficilmente sopite) che solo interventi seri e decisi di poteri e di forze internazionali pare possano condurre a cammini di pace (ci sono militari africani – ad es. sudafricani – a garanzia di alcune località, come l’aeroporto della capitale; ma pare che presto se ne dovranno partire… perché a corto di sostegno economico!). Il Paese è molto povero. Vive di agricoltura, tutta compiuta a mano e per lo più dalle donne. Queste sono in genere molto emarginate, almeno nelle campagne; per avere appoggio cercano di sposarsi, ma nel matrimonio pare si attui ancora la graduatoria delle finalità di una volta: prima la procreazione (molta!), poi il rimedio della concupiscenza (soprattutto del marito!), poi l’amore (quando c’è).
E la Chiesa?
Vi sono alcune strade asfaltate (poche) tra la capitale e tre capoluoghi di provincia; il resto, terra battuta. E sempre a piedi (o qualche bicicletta, per uomini). ospedali nelle città sono sette, i dispensari non funzionano (salvo i pochi delle missioni, sempre affollatissimi). Gli aiuti dall’estero… trovano sempre molte soste
E la Chiesa? È una Chiesa consistente (Burundi e Ruanda sono i soli Paesi africani a maggioranza cattolica, per un massiccio apostolato dei Padri Bianchi, fondati a suo tempo dal card. Lavigerie arcivescovo di Algeri), ma è fortemente condizionata dalla divisione in etnie. Al momento delle sollevazioni vi sono stati eccidi tra cristiani della stessa parrocchia, con ricerche individualizzate anche nei Paesi vicini. La differenza è sentita anche fra il clero, e raggiunge i vescovi (sono due Tutsi e cinque Hutu); il vescovo di Gitega, un tutsi, venne assassinato alcuni anni fa per aver condannato un eccidio di Tutsi avvenuto nel suo territorio! E anche i missionari devono essere molto prudenti; si sentono dire: “Voi non capite; noi prima siamo Tutsi (o Hutu), poi siamo cristiani!”.
I vescovi si sono messi in stretto collegamento con la Conferenza episcopale statunitense, che s’è impegnata per la pace nella regione africana dei Grandi Laghi (di cui fa parte il Burundi);e (soprattutto due, un Tutsi e un Hutu) vanno spesso in America, o vengono in Europa, anche per trovare aiuto agli emigrati (es. Hutu in Tanzania) o ai rifugiati (es. Tutsi in campi di raccolta nelle zone hutu). Accanto alla pastorale sacramentale (ho salutato al Nord, dove vi sono ancora molti pagani, seicentocinquanta adolescenti che si preparavano al battesimo, dopo quattrocento adulti appena battezzati; in una parrocchia della nostra missione si preparavano alla Cresima di milleduecento candidati!) vi sono molti movimenti, per lo più di carattere devozionistico; ma non mancano iniziative per giovani e gruppi del Vangelo, con una forte attività di numerosissimi catechisti.
Ho notato invece che mancano i diaconi permanenti, e che un discorso del genere incontra difficoltà; e dire che in Burundi tutto si svolge (compresi i gruppi del Vangelo) per colline, secondo la configurazione geografica del Paese (e ogni collina ha i suoi “notabili” che godono della fiducia del resto della popolazione). Del resto questa proposta incontrò difficoltà anche in Concilio, soprattutto da parte della mentalità giuridica (ricordo un intervento del card. Ottaviani) che rifiutava i diaconi come superflui (“Non fanno niente che non possano fare anche i laici”). L’intervento convinto di organizzazioni internazionali, così come una preghiera e una conversione continua delle Chiese (delle nostre e di quella del Burundi) sono le sole speranze di pace per un Paese che la desidera ma – almeno in troppa parte dei suoi responsabili – non sa cercarla.