Dossier

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Europa a mano armata
A cura di Diego Cipriani

Il 2003 avrebbe dovuto essere, per l’Unione Europea, l’anno del famoso esercito comune. Infatti, così era stato deciso nel dicembre 1999 a Helsinki: grazie a una “cooperazione volontaria”, gli Stati membri avrebbero dovuto essere in grado di schierare rapidamente (entro 60 giorni) e mantenere (almeno per un anno) forze militari (50-60.000 uomini) capaci di svolgere l’insieme dei “compiti di Petersberg” (previsti dall’articolo 17 del trattato sull’UE). In realtà, l’anno finirà senza che questo ambizioso progetto veda la luce, anche se “truppe UE” sono da qualche mese presenti in Africa, in Macedonia e, prossimamente, in Bosnia, a riprova della capacità ormai raggiunta di condurre operazioni di gestione delle crisi.
Quella dell’esercito europeo è una vicenda emblematica del dilemma nel quale si dibatte la “nuova” Europa unita e che riguarda la politica comu ne in materia di difesa (o di sicurezza, come viene definita) strettamente legata alla politica estera. La cosiddetta PESC (la Politica Estera e di Sicurezza Comune) è stata istituzionalizzata dal trattato sull’UE nel 1991, ma è solo nel 1998 che l’Unione ha iniziato ad affrontare seriamente le questioni relative alla difesa comune, dovendo fare i conti con le differenze esistenti tra tutti gli Stati membri (dei quali, ad esempio, non tutti hanno forze armate in grado di operare all’estero, per non parlare della questione dei spese statali dedicate alla difesa).
Tanto per aumentare la confusione, nel 2002, nel primo summit dopo l’11 settembre, la NATO ha istituito la NRF, la Forza Rapida. Quale rapporto c’è tra questa Forza e la FERR, cioè quella dell’UE? Entrambe pescano dallo stesso bacino, ma mentre la Forza europea risponde alle missioni dell’Unione, la NRF risponde a qualsiasi decisione del Consiglio Atlantico. Non è esclusa, dunque, una divaricazio ne tra questi tipi di impieghi. Ma già sull’Iraq l’UE ha mostrato la sua spaccatura sia in politica estera sia in scelte militari. Questo discorso porta inevitabilmente ad affrontare lo scoglio Stati Uniti e il peso che essi hanno nella politica estera e di difesa dell’Unione. Purtroppo questo peso si fa sentire proprio mentre i 15 stanno scrivendo la loro Carta fondamentale comune. L’insistenza, infatti, della minaccia terroristica (o della proliferazione delle armi di distruzione di massa), con le conseguenze sulle scelte strategicomilitari (spese militari comprese) che si auspica vengano adottate, sembra più un copione scritto a Washington che a Bruxelles.
Dobbiamo rassegnarci a un’Europa che, anche in tema di difesa comune, segue logiche “altre”, quelle delle industrie di armi, ad esempio?

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