Donne nelle istituzioni
Questa mattina assistevo a un convegno organizzato dall’Enaip sugli scenari offerti dalle politiche di “pari opportunità” ho potuto ascoltare i dati di una ricerca che verificava sul personale maschile di quattro imprese le ragioni della difficoltà di carriera delle donne. Ancora persistono gli stereotipi medievali se le risposte individuano le responsabilità non come sistemiche, ma semplicemente naturali: nell’ordine le donne sarebbero “troppo umorali”, troppo poco disponibili a causa dei loro impegni di mogli e di madri, troppo rigide, più creative che razionali.
L’età della pietra ancora culturalmente troppo vicina impedisce dunque di uscire dalla logica che prevede per i soggetti deboli solo l’omologazione: le pari opportunità non sono altro che realizzazione anche per le donne di parità con gli uomini, interpreti dell’unico modello di piena realizzazione umana. La stessa logica vale anche nelle istituzioni, che non riescono a schiodarsi dall’égalité del 1789, quella che non riconosce le diversità, ma le “tollera” finché non diventano, appunto, uguali. Per gli italiani – e ovviamente le italiane – i problemi incominciano con la Costituzione. Se si legge l’art. 37 subito dopo il 36, si scopre che la discriminazione contro le donne si ritorce in perdita di diritti degli uomini: infatti la lavoratrice ha “gli stessi diritti del lavoratore” (il che sarebbe la parità), ma fatta salva “la sua essenziale funzione familiare”.
Questo crea la disparità per la donna che trova nella maternità non un diritto bensì un limite, ma anche la disparità dell’uomo a cui viene sottratta ogni essenziale funzione familiare. Eppure, che si sappia, nessun uomo è mai ricorso alla Corte Costituzionale per questa sottrazione di diritti. Altre Costituzioni utilizzano altre espressioni, ma nessuna fa della maternità un diritto e le donne si sono dovute accontentare di rogazioni di benefici per gravidanza, parto e postparto che le penalizzano sul lavoro.
Tra Italia ed Europa
Da parecchi anni – fin dal primo tentativo di riforma costituzionale della “commissione Bozzi” – le donne hanno posto con forza il problema della rappresentanza di genere e hanno chiesto di poter avere pari opportunità nelle elezioni; ma la norma che prevedeva il riequilibrio di genere nelle liste è stata dichiarata, nel 1995, incostituzionale dalla Consulta. È così che è sembrato bene pensare a una modificazione della Costituzione, all’art. 51: l’integrazione è stata approvata il 6 marzo 2002 quasi plebiscitariamente e il governo Berlusconi ne ha affrettato l’iter fra Camera e Senato per solennizzare l’“otto marzo” con un mazzolino di gramigna. L’art.51 così modificato sarà soggetto alle procedure di tutte le modifiche costituzionali e, poi, andrà convalidato da norme applicative. Il nuovo testo dice che la Repubblica deve promuovere (sarebbe stato meglio “garantire”?) iniziative di pari opportunità (ma perché non pari diritti?) ai fini del riequilibrio della rappresentanza.
Le donne – che sono il 52% dell’elettorato in quasi tutti i Paesi, “restano indietro” anche di fronte alla nuova Costituzione europea. La Carta dei diritti fondamentali ha usato – certo non illegittimamente – il termine individuo a coprire di un bel manto neutro i cittadini e le cittadine che il linguaggio anglosassone aveva illuso di venire sempre menzionati nei due generi. L’art. 23 riconosce la parità tra uomini e donne “in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione” e consente “vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”. Alle donne non basta il pur significativo riconoscimento “in tutti i campi” se privilegia il lavoro e non cancella la sottorappresentazione con la pienezza del diritto. Tanto per capire l’animus del legislatore, ai diritti delle donne (art.23) seguono i diritti dei bambini (art.24), degli anziani (art.25), dei disabili (art.26): tutele per i soggetti deboli.