La chiesa e il lavoro che cambia
Non tocca certamente alla Chiesa proporre soluzioni tecniche al mondo della politica e dell’economia. Ma è suo sacrosanto diritto-dovere intervenire, oggi soprattutto, con maggior forza e coraggio, ogni qualvolta è in gioco il rispetto e la dignità della persona umana. Alla Chiesa stanno a cuore le vicende delle persone e delle famiglie, la loro serenità e il loro domani.
Non voglio entrare nel merito delle questioni tecniche, ma ho l’impressione, fondata, che il lavoro ormai sia ridotto a merce e che i rischi, derivanti in particolare dalle trasformazioni del lavoro stesso, toccano la vita delle persone, delle famiglie e della società sotto il profilo della flessibilità, che genera precarietà, disoccupazione, paura e delusione nel cuore delle persone, soprattutto dei giovani. Già la precedente maggioranza, con il “pacchetto Treu”, aveva avviato la riforma del mercato del lavoro, introducendo il lavoro interinale e i cosiddetti lavori “atipici”, vera forma di nuovo “caporalato legalizzato”.
L’attuale governo, prima dell’estate, ha approvato i decreti attuativi della c.d. riforma Biagi. La parola chiave è flessibilità. Un pacchetto di 90 articoli che ridisegnano in maniera radicale il mercato del lavoro nel nostro Paese: collocamento anche privato, nuovi modelli di contratti a chiamata, job sharing, staff leasing, lavoro su “progetto”, nuove regole per il parttime, bonus per i lavori occasionali.
La “filosofia” di fondo di questa riforma è a tutti molto chiara: massimizzazione del profitto, precarietà, instabilità, idolatria del mercato, mancanza di tutele, economia senza “anima”, capovolgimento dell’etica sociale cristiana: non più l’uomo al centro, ma “asservito” al capitale e al lavoro, concretizzazione piena della cultura neoliberista.
Di fronte a questa complessa trasformazione sociale è urgente che la Chiesa, quella italiana in particolar modo, “gridi”, con il Papa, che Gesù nei Vangeli si è presentato anzitutto, con i suoi gesti di guarigione e di bontà, come il liberatore di coloro che vivevano situazioni di precarietà, di emarginazione e di disprezzo.
Dice Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus (n. 35): “Scopo dell’impresa(…) non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società”. Certamente, dice ancora il Papa: “ la Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda(…) Tuttavia è possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda”.
Ancora, il Papa nella Laborem exercens sviluppa una giusta gerarchia di valori: il primato dell’uomo sul lavoro, il primato del lavoro sul capitale, il primato della destinazione universale dei beni sulla proprietà privata. Toccherà soprattutto alla comunità cristiana “accompagnare” i lavoratori in questo difficile “passaggio epocale”. Sarà compito particolarmente dei nostri Pastori intervenire non solo su questioni che riguardano la morale sessuale, la bioetica, ecc., ed essere coscienza critica nei riguardi delle istituzioni (e in particolar modo dei “poteri forti” e di questo governo!), perché salvaguardino sempre e comunque la dignità della persona umana nel mondo del lavoro. Solo così sarà assicurata la giustizia e, con essa, la pace sociale.
Così io sogno la Chiesa. Questa Chiesa. Oggi. In questa società globalizzata. Con questi problemi. Nel mondo del lavoro. E non è utopia. Perché, come direbbe, ancora oggi, il “nostro” don Tonino: “Una Chiesa che non sogna, che non viene dal futuro, non evangelizza”.