Il nuovo nome della pace

Una conversazione con il Segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, mons. Crepaldi: di fronte allo scenario inquieto del nostro tempo e al proliferare di nuovi armamenti, quale riflessione etica possiamo suggerire?
Intervista a cura di Rosa Siciliano

I giorni 11 e 12 aprile 2008 si è svolto a Roma il seminario internazionale sul tema “Disarmo, sviluppo e pace. Prospettive per un disarmo integrale”, organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Al seminario hanno partecipato esperti del mondo religioso, politico ed economico per riflettere su una delle questioni che preoccupano maggiormente la Chiesa e la Santa Sede. Considerata l’importanza dell’iniziativa, abbiamo rivolto qualche domanda a S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. 

Eccellenza, oggi si assiste a una preoccupante crescita della spesa militare mondiale per gli armamenti. Come interpretare questa tendenza?

Come ha notato, va purtroppo registrata una progressiva crescita della spesa militare mondiale per gli armamenti. Secondo l’ultimo dato rilevato, la spesa militare mondiale è stata pari a 1.339 miliardi di dollari solo nel 2007: il livello più alto mai registrato. Questo dato è soprattutto frutto della politica di sicurezza degli Stati, i quali, soprattutto a seguito dei tragici eventi dell’11 settembre 2001, sembrano affidare la sicurezza e la pace internazionale alle armi, piuttosto che alla diplomazia e allo sviluppo integrale della persona umana e dei popoli. 

Oltre a minacciare la sicurezza e la pace, la spesa militare attuale frena il multilateralismo in materia di disarmo e controllo delle armi. Gli strumenti attualmente in vigore non vengono adeguatamente attuati. Pensiamo al trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari. Altri strumenti adottati non vengono ratificati da un numero sufficiente di Stati. Pensiamo al trattato sul divieto totale dei test nucleari. Infine altri strumenti sono attualmente solo allo studio di “fattibilità”. Mi riferisco ad esempio al progetto di trattato sul commercio internazionale di armi

In tale contesto, bisogna comunque registrare dei dati positivi. Il 30 maggio scorso è stata infatti adottata a Dublino la convenzione sulle munizioni a grappolo, la quale introduce il divieto delle munizioni che causano “danni inaccettabili” ai civili. Il nuovo strumento fissa uno standard internazionale per la limitazione dell’impatto umanitario di questo terribile tipo di ordigno e per la tutela dei civili durante e dopo un conflitto armato. Un aspetto che va sottolineato è che il negoziato si è svolto fuori del quadro delle Nazioni Unite e della Conferenza sul disarmo. Un invito a riflettere sull’attuale organizzazione internazionale, ma anche a notare la presenza di una “dinamica” positiva della comunità internazionale da valorizzare. La Santa Sede era presente a Dublino ed è stata molto attiva lungo tutto il negoziato, il cosiddetto “Processo di Oslo”, e intende firmare e avviare la procedura di ratifica della Convenzione al più presto e magari proprio in occasione dell’apertura alla firma prevista il 3 dicembre prossimo a Oslo. 

La Santa Sede sottolinea molto il legame tra disarmo, sviluppo e pace. Può dirci qualcosa in merito?

Esiste una stretta connessione tra disarmo e sviluppo, e quindi tra sviluppo e pace. Non si potrà raggiungere un adeguato livello di sviluppo dei popoli finché saranno destinate ingenti risorse, materiali e umane, alla spesa militare. Non è inoltre concepibile un’autentica pace senza un livello adeguato livello di sviluppo dei popoli. Come ha sottolineato il Santo Padre Benedetto XVI in occasione del seminario dello scorso aprile organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: “Non è concepibile una pace autentica e duratura senza lo sviluppo di ogni persona e popolo”. In tal senso anche papa Paolo VI che, con un’espressione assai felice, affermò che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. La stessa Carta delle Nazioni Unite impegna gli Stati a “promuovere lo stabilimento e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26). 

Più in particolare, vi è il rischio di una sovrapposizione dell’economia civile con quella militare. Questo fenomeno non è totalmente nuovo, anche se diversi avvenimenti, e in particolare il progresso tecnico-scientifico, sollecitano una nuova riflessione. Vorrei fare solo riferimento al cosiddetto “dual use”, e cioè alla possibilità che uno stesso bene o conoscenza possa avere una duplice destinazione d’uso, civile o militare. La diffusione di tali beni e conoscenze rende difficile la distinzione tra economia civile e militare e sollecita una riflessione sulla sicurezza dell’economia e degli scambi internazionali. La questione, come quella più generale sul legame tra disarmo e sviluppo richiedono una profonda presa di coscienza e una seria risposta sul piano politico, economico e, in una più ampia prospettiva, etica e deontologica soprattutto nei settori biologico, chimico e nucleare. 

A proposito dei settori biologico, chimico e nucleare, questi richiedono forse politiche di sicurezza più efficaci?

La questione è assai delicata. Possiamo tuttavia notare una sorta di “contraddizione interna” alla politica di sicurezza con riferimento ai settori biologico, chimico e nucleare. In questi settori, gli Stati perseguono il massimo sviluppo dei programmi civili. Al tempo stesso, molti Stati vanno sviluppando programmi militari. Si comprende come la sicurezza dei programmi civili nei settori biologico, chimico e nucleare non sia assicurata sino a quando gli stessi Stati non abbandoneranno i programmi militari, i quali non sono sempre portatori di propositi difensivi e pacifici. 

Quanto influisce la lotta contro il terrorismo?  

Certamente tutti questi fenomeni vanno inseriti nel contesto della cosiddetta “lotta globale contro il terrorismo”. Anche in questo caso va tuttavia notata una certa contraddizione. Dopo gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 la comunità internazionale ha adottato misure severe per prevenire ed eliminare il rischio di atti terroristici. Al tempo stesso, gli Stati hanno avviato un rinnovo degli arsenali e delle armi di distruzione di massa. Su tali basi, la politica di sicurezza degli Stati, comportando un potenziamento degli arsenali, rischia di minacciare la pace e la sicurezza che si intende difendere dai soggetti non statali. Bisogna avere il coraggio di disarmare sé stessi, oltre al potenziale aggressore. La posta in gioco è la pacifica convivenza dei popoli.    

Queste contraddizioni incidono sui sistemi di monitoraggio internazionale?

Le diverse contraddizioni tra le politiche di sviluppo e di sicurezza incidono sugli attuali sistemi di monitoraggio nei settori chimico e nucleare (come sappiamo la Convenzione sulle armi biologiche non prevede un sistema internazionale di monitoraggio). Ad esempio, nel settore nucleare, la ripresa dei programmi militari da parte di diverse potenze nucleari rischia di ridurre la credibilità del monitoraggio svolto dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA). Gli Stati non dotati di armi nucleari, infatti, potrebbero essere indotti a giudicare questo sistema di monitoraggio come uno strumento di politica estera degli Stati dotati di armi nucleari. 

Può dirci infine qualcosa sul ruolo del progresso tecnologico? Una grande opportunità oppure un rischio?

Nella prospettiva cattolica il progresso tecnologico è un dono di Dio. La bontà del progresso dipende tuttavia dalla sua concreta destinazione. In questa fase della storia, segnata da un impressionante e rapido progresso, l’umanità è chiamata a fare una scelta etica di fondo, e cioè se indirizzare la tecnologia a favore dell’uomo o contro l’uomo. Nel primo caso la tecnologia potrebbe essere uno strumento al servizio dell’uomo, in vista della realizzazione del bene comune. Nel secondo caso, essa sarebbe uno strumento di egemonia economica o militare, e quindi una ragione di conflitto. Pensiamo a quali inquietanti scenari possono essere legati all’uso ostile della biotecnologia. 

La dottrina sociale della Chiesa propone un principio fondamentale e cioè quello della destinazione universale dei beni. Anche la tecnologia e il progresso possono essere considerati come “beni” materiali e immateriali da porre al servizio dell’uomo. L’ingegno umano trova una sua giusta collocazione solo nell’orizzonte della pace e del bene comune! 

 

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