Dalla rete al cerchio
Siamo tutti alla ricerca di nuovi alfabeti culturali politici sociali. Uno dei motivi di questo smarrimento è quello di ritrovarsi oggi con rappresentanze sociali e politiche così esigue al punto da non poter essere presenti in Parlamento.
Ma il problema non è quello della scomparsa di alcune formazioni politiche. La crisi è ben più grave, poiché è tutta la cultura ecologista, solidale e nonviolenta, antimafia che rischia di scomparire o quanto meno di restare invisibile e di non poter essere neanche sale o fermento nella nostra società. E se non siamo visibili, incisivi, comunicativi, se i modelli vincenti (che sono poi quelli che la gente ha votato) ci appaiono lontani dal bene comune, il problema può derivare certamente da un sistema che si va strutturando in forme perverse che inducono tutti ad accettare il male come se fosse bene. Ma dobbiamo anche interrogarci su noi stessi. E, rifacendomi all’esigenza di un nuovo alfabeto, vorrei provare a partire dalle parole, nella convinzione che esse hanno un forte legame con le nostre storie, valori, emozioni.
Mai come in questo momento appare opportuno il richiamo nonviolento alla conversione, al cambiamento di rotta, con il coraggio di percorrere strade nuove, pensieri non pensati, leggi non ancora scritte, parole e termini non ancora pronunciati o forse dimenticati, ma soprattutto modi di vita non ancora sperimentati.
Le parole hanno un forte legame con le nostra vita. Esse hanno una frequenza che a volte può toccare il nostro intimo più profondo. Possono essere pronunciate e ascoltate distrattamente, migliaia di volte. Possono in altri casi avere invece la capacità di distoglierci dalle routine quotidiane come quando nel “rumore” televisivo (che fa da sottofondo in molte delle nostre case) qualcuno pronuncia il nostro nome o una parola a cui siamo particolarmente legati.
È comprensibile come alcuni di noi abbiano difficoltà a rinunciare a dei termini: ripensare criticamente l’uso delle parole e il loro significato non significa rinnegare la positività storica degli uomini e dei movimenti che ne hanno fatto delle bandiere. Proprio nella grave crisi che attraversiamo quest’esercizio ci fa scorgere qualcos’altro, un nuovo orizzonte verso cui indirizzarci.
Il valore della comunità
Ho avuto modo di leggere alcuni brani del racconto di vita di Alce Nero, Capo di una tribù Sioux delle praterie dell’America del Nord che, dopo la descrizione di un massacro di donne e bambini ad opera dell’uomo bianco, racconta: “E so che con loro morì un’altra cosa, lì nella neve insanguinata, qualcosa che è rimasto sepolto sotto la tormenta. Lì morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno... Il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”.
Proprio il cerchio è il simbolo che mi torna in mente in questi tempi.
Perché nelle nostre riunioni invitiamo spesso a mettersi in cerchio, a fare un cerchio? Forse perché il cerchio è il simbolo della comunità. Ed è proprio la comunità, probabilmente, che stiamo perdendo di vista.
Io penso che, anche nel nostri mondi ecclesiali e religiosi in genere, nei mondi della politica alternativa, del volontariato, dell’antimafia, abbiamo avuto pudore di pronunciare il termine comunità. Spesso parliamo di “territorio” o, quando vogliamo riferirci a chi ci è prossimo per idee e valori, parliamo di “rete”.
La rete e le reti sono parole in cui siamo rimasti intrappolati.
La rete rimanda a un concetto ambiguo; da una parte essa richiama al dato evidente dell’interconnessione tra i soggetti che la compongono esaltandone la strutturazione orizzontale, anti-gerarchica e anti-centralistica.
Ma proprio per questa sua natura descrittiva di una realtà infinita e interconnessa, essa rischia di essere assunta per quello che non è. La rete è una carta geografica e non un percorso. La rete è un aggregato di soggetti potenzialmente relazionati ma non è società (organizzazione), non è comunità (insieme di relazioni affettive ed empatiche, di agape fraterna, di amore).
La rete è una trama entro cui costruire, in cui selezionare, in cui ritrovare il nostro ordine di senso collettivo.
Ma guai a considerare la rete come il nostro ambiente o peggio come il nostro approdo, come il luogo in cui possiamo ritrovare il senso, anche politico, del nostro agire. Ciò porta a due rischi contrapposti, da una parte quello di assumerla come un “dato di fatto”, immutabile e neutro; dall’altro la sua dimensione infinita e mai conchiusa può portare a considerarci onnipotenti, perdendo quell’attenzione alla dimensione della prossimità, del locale, del villaggio su cui il nostro intervento è da noi stessi controllabile ed è pertanto quello che ci corrisponde.
C’è sicuramente un dato su cui dobbiamo riflettere: la facilità con cui riusciamo a “mettere in rete” tanti soggetti, sia pure quelli che hanno un pensiero comune è inversamente proporzionale alla capacità di intrecciare relazioni durature di convivialità (quanti conflitti anche nei nostri gruppi che si ispirano alla nonviolenza!) Eppure la convivialità delle differenze (definizione cara a don Tonino Bello) è l’obiettivo che teoricamente assumiamo come prioritario: una società in cui tutti siano felici e sappiamo affrontare e risolvere i conflitti.
Tutta la filosofia nonviolenta (viene in mente soprattutto Capitini) ci richiama a questa contraddizione: il mezzo che uso è coerente con il fine che mi propongo di raggiungere? In qualche modo lo anticipa?
Ricostruire il tessuto umano
Ciò che stupisce non è allora la diffusione crescente di un termine quello di rete, che può risultare utile ai nostri discorsi, ma il fatto che mentre l’uso di una parola cresce a dismisura l’impiego di un’altra che si riferisce a un concetto prossimo quasi scompare: oggi nessuno parla più di comunità.
Non ne parla la destra ossessionata dal tema della sicurezza del singolo e delle famiglie. D’altra parte lo stesso concetto di “patria”, che pure in qualche modo – forse contraddittorio – rimanda a una comunità nazionale, è stato abolito a destra per il ricatto della Lega, pronta a deridere ogni riferimento all’unità nazionale. Tutta l’attenzione è riposta all’extra-comunitario, ma la comunità, cosa veramente sia, nessuno lo sa più.
Non ne parlano le culture di sinistra: né quelle moderate né quelle radicali proprio perché hanno perso la pratica dei circoli, centrandosi l’una su una forma partito vetusta e arrogante, l’altra sui temi della globalizzazione e di un altro mondo possibile ma mai sperimentabile qui e ora… Tutto il mondo no-global è impegnato a creare reti tra simili anche a distanze continentali, ma poche comunità in cui fare esperienza di nuovi rapporti tra gli uomini e tra uomini e ambiente
Non ne parla la Chiesa troppo centrata sul tema della famiglia e delle bio-etiche. Temi che, pur importanti, la pongono al riparo da un’analisi critica sul fallimento dell’esperienza comunitaria più diffusa del secolo scorso che è quella della parrocchia: cosa l’ha fatta naufragare?
Per tornare al senso di smarrimento a cui accennavamo all’inizio del nostro ragionamento, che è quello della crisi della rappresentanza politica, che tuttavia nasconde un disorientamento ancor più intimo e profondo, dobbiamo forse ritrovare il gusto del vivere comunitario. Non dobbiamo illuderci tuttavia che tale percorso sia facile e indolore: troppe ideologie e culture individualistiche ci hanno disabituato alla comunità. Tuttavia un vero rinnovamento della politica non può prescindere da un forte impegno per la ricostruzione di cerchi e di circoli, ossia ambiti comunitari. Se ciò non aprisse a fraintendimenti di rinuncia, potremmo dire che si tratta di un lavoro pre-politico.
Dobbiamo, inoltre, riconoscere che questo lavoro è doppiamente difficile in terre di mafia. Ma proprio per superare questi ostacoli il servizio che da cristiani, assieme a tutti gli uomini di buona volontà dovremo compiere sarà proprio quello di far nascere e vivere in prima persona esperienze di gruppi, comunità, fraternità, luoghi di incontro, di esperienze di solidarietà, di mutuo-aiuto, di sobrietà felice. Esperienze che sappiano parlare a chi è fuori dal cerchio, a chi in questo momento non ne capisce il senso e la bellezza: a coloro che pensano che la politica sia inevitabilmente sporca, che la mafia crea lavoro e giustizia. Ecco questa è la vera sfida: proporre la bellezza del cerchio a chi parla altre lingue, anche profondamente diverse dalle nostre per prassi e per valori. Bisogna sperimentare questa fiducia nel cerchio che si apre per accogliere chi sta fuori: come quando si fa una danza e quelli che prima erano i più riluttanti e annoiati sentono di dover entrare perché la danza e la musica sono veramente invitanti.