ITALIA

Se l’informazione è una merce

Prima la conquista selvaggia dell’etere.
Poi lo stravolgimento del diritto e delle regole.
Il regime mediatico e la nostra democrazia.
Nicola Colaianni

Parole premonitrici quelle di Norberto Bobbio, il grande maestro che ci ha appena lasciato e al quale rendiamo così il nostro semplice omaggio. Ormai mezzo secolo fa (1955), replicando a Roderigo di Castiglia (ossia, Palmiro Togliatti) sulla libertà di stampa, scriveva Bobbio che al socialista, il quale sostenesse che al cittadino importa di avere non la facoltà di fare un giornale ma anche il potere, egli era disposto a dare ragione a questa condizione: “Che la libertà come potere non venga conferita a scapito della libertà come facoltà, in altre parole che i cittadini che diventano liberi di stampare un giornale (nel senso di averne il potere) possano stamparlo liberamente (nel senso di non essere impediti dal manifestare le proprie idee). Altrimenti che razza di potere gli abbiamo dato?”.
Proprio con riferimento alla televisione, il nuovo strumento di comunicazione di massa che pochi mesi prima aveva cominciato le trasmissioni, la storia avrebbe dimostrato la giustezza dell’osservazione di Bobbio. Infatti, il potere di fare la televisione fu dato idealmente a tutti i cittadini attraverso il monopolio pubblico, ma ciononostante, e anzi proprio per questo (per lo strapotere esercitato dai partiti di maggioranza, in particolare, e dalla partitocrazia nei confronti di ogni altra formazione sociale), rara è stata la libertà di non essere impediti di manifestare le proprie idee. E tanto più questa libertà è venuta a mancare in conseguenza della selvaggia conquista dell’etere negli anni settanta da parte di capitalisti, ordinariamente dediti ad altre attività economiche, che hanno fatto anche dell’informazione una merce e, in particolare, un mezzo di creazione di bisogni, di condizionamento del consumatore, di organizzazione del consenso.

Duopolio all’italiana
Se l’informazione è una merce, funzionale a interessi di varia e diversa natura, la libertà di manifestare le proprie idee da parte degli stessi operatori dell’informazione è pesantemente limitata, quando non assolutamente esclusa. Si tratta di un fenomeno mondiale, beninteso, visto che negli Stati Uniti, per esempio, il tetto antitrust è fissato al 35%, ma esso assume particolare incisività nel nostro Paese, dove sostanzialmente c’è una situazione di duopolio tra pubblico e privato e il proprietario del polo privato è anche il capo del governo e ha il potere di controllare, quindi, il polo pubblico.
Né tale situazione può dirsi modificata dal pluralismo esistente nell’informazione stampata: basta pensare che le copie vendute dai tre maggiori quotidiani “generalisti” (“Corriere della sera”, “Repubblica” e “Stampa”) non toccano complessivamente i due milioni, cioè il numero di spettatori raggiunti mediamente da Vespa con il suo “Porta a porta”. Con la differenza che questi spettatori, a differenza dei lettori, sono sincronizzati sugli stessi argomenti di conversazione e si sentono idealmente partecipi della discussione su temi cruciali e sulle grandi scelte politiche, che nella realtà della vita quotidiana sono loro precluse.
È il fenomeno della “extraterritorialità virtuale”, di cui parla Zygmunt Bauman nella sua recente intervista pubblicata da Laterza: essa di per sé non crea una identità condivisa, ma non c’è il tempo di accorgersene, perché gli argomenti ascoltati “hanno tendenza a sparire dalla vista e venire dimenticati prima che si abbia il tempo di scoprirne il bluff”. Per non parlare del modo di confezionamento dei servizi giornalistici in cui, come ha osservato di recente Umberto Eco, il regime mediatico – cioè nel nostro Paese il regime berlusconiano – “riduce al silenzio gli oppositori più che con la censura facendo sentire le loro ragioni per prime” e facendole seguire da quelle dei sostenitori del governo, che obiettano alle prime.
Questo condizionamento dell’opinione pubblica e di quella personale crea assuefazione, una specie di anestesia morale che porta a considerare, se non proprio normale, quanto meno relativo che il Paese debba pagare un prezzo così alto in termini di libertà d’informazione. Due esempi: non casuali, naturalmente, perché riguardano i limiti posti dalla Costituzione e dalle leggi alla confusione dei poteri, quello politico e dell’informazione, e alla concentrazione di quest’ultimo.

Leggi ad personam
Al primo esempio accenno con un certo ritegno, tanto è desueto. C’è una legge che vieta l’eleggibilità al Parlamento di titolari di concessioni pubbliche: ma, con il decisivo apporto delle forze di centrosinistra, la competente giunta della Camera non ha mai incluso tra di esse anche quelle radiotelevisive, con la conseguenza che Berlusconi siede da dieci anni in Parlamento in barba alla legge. Ma ci abbiamo fatto l’abitudine e quasi nessuno considera ciò un’usurpazione: anzi è considerato politicamente scorretto anche solo ricordare questa violazione della legge perché Berlusconi – si sente dire – bisogna batterlo con la forza della politica non con quella del diritto, impedendogli in nome della legge di sedere in Parlamento e, quindi, di essere l’icona del conflitto di interessi.
Un po’ differente, ma in conclusione analoga è stata la vicenda relativa alla legge Gasparri, pur rinviata alle Camere (qui è la differenza) dal Presidente della Repubblica. Per frenare le scorribande di Berlusconi nella giungla dell’etere s’erano mossi, come si ricorderà, i pretori in nome della legge; ma questa con decreto d’urgenza ad personam era stata prontamente modificata per ben 14 volte da qualunque governo in carica: fosse presieduto da Craxi, all’inizio, o da D’Alema, alla fine. Qui però c’era l’occhio vigile della Corte costituzionale, pronta a mettere in evidenza come il pluralismo dell’informazione sia un valore costituzionale e richieda il “massimo numero possibile di voci diverse” (sentenza n. 112/1993), che il duopolio non è idoneo ad assicurare (sentenze n. 826/1998 e n. 155/2002).
E, tuttavia, ancora “agli inizi del 2001 il ‘periodo transitorio’, che secondo la Corte non avrebbe dovuto superare l’agosto del 1996, non accenna a concludersi” perché la legge 249/1997 aveva concesso “la facoltà di proseguire nell’esercizio delle reti eccedenti il limite” (Rete4): sono parole del TAR del Lazio (15 febbraio 2001), che conseguentemente solleva l’ennesima eccezione di incostituzionalità. Eccezione accolta: con la sentenza n. 466 del 20 novembre 2002 la Corte costituzionale fissa un termine finale “assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile” per il mantenimento delle reti eccedenti: i cui programmi, oltre il termine “certo, e non prorogabile”, del 31 dicembre 2003, “devono essere trasmessi esclusivamente via satellite”.
Come non detto: siamo nel 2004 e Rete4 è sempre lì a trasmettere programmi in barba al termine “assolutamente certo”, “definitivo”, “non eludibile” e “non prorogabile”. Eppure è successo che il Presidente della Repubblica s’è rifiutato di firmare la legge Gasparri proprio perché in palese contrasto con la

In rete
sentenza della Corte costituzionale. Ma è successo anche che subito dopo è intervenuta, neanche a dirlo, un’altra proroga, la quindicesima. Non c’era alcuna urgenza se non quella di bloccare l’applicazione della legge nei confronti di Berlusconi mandando Rete4 sul satellite.
Ma stavolta Ciampi non poteva non firmare il decreto-legge perché in realtà era stato proprio lui a prefigurarlo nel messaggio alle Camere: interpretando la data del 31 dicembre 2003 come il termine non del regime transitorio ma dell’attuazione delle modalità di cessazione dello stesso, a cui porre un ulteriore termine. Interpretazione francamente strana e incomprensibile, ma sostenuta dalla maggior parte delle opposizioni, preoccupate dalla necessità di salvaguardare i posti di lavoro: nessuno, tranne il presidente emerito Scalfaro, che ricordasse il diritto disatteso di un cittadino, cui era stata negata la concessione di una frequenza perché occupata (grazie a proroghe di termini improrogabili) da Rete4.
Sono i frutti dell’assuefazione: un disfacimento del principio della distinzione dei poteri. Che rende necessario mettere al primo posto di un progetto politico innovatore la difesa dello stato di diritto: l’effettiva posta in gioco.

Note

Professore nel Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Bari

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    Professore nel Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Bari
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