ARMI

Il fallimento dell’arbitrio

Dopo l’invasione dell’Iraq, quali le strade per il disarmo nucleare, chimico e biologico?
Achille Lodovisi

Riflettendo sugli eventi degli ultimi mesi si ha l’impressione che chi, un anno fa, decise di invadere l’Iraq oggi stia puntando molte delle sue carte sul fenomeno dell’amnesia di massa, prodotto dalla folle rincorsa di stampa e televisione ai titoli “d’attualità”. Che fine ha fatto l’espressione “pistola fumante”, che era stata coniata dai responsabili dell’amministrazione Usa per eccitare nella fantasia dell’opinione pubblica un timore tale da giustificare una guerra preventiva (autentico insulto nei confronti del diritto internazionale) contro il “mostro” Saddam, sicuro possessore di terribili armi di distruzione di massa?

Fine di un teorema
Nonostante dal maggio del 2003 l’Iraq Survey Group (ISG) – composto da circa 1.400 tra esperti di società private, agenti della CIA, della Defense Intelligence Agency (DIA), personale britannico e australiano – abbia condotto ispezioni approfondite con gran dispendio di mezzi (centinaia di milioni di dollari) alla ricerca delle presunte armi di distruzione di massa irachene, nulla di nuovo è emerso rispetto a quanto portato alla luce dal lavoro svolto dagli ispettori ONU (UNMOVIC e IAEA) tra il 1992 e il 1998 e nel corso del 2002. Non sono stati rintracciati né i vecchi arsenali che sarebbero stati occultati dopo il 1991, né i nuovi, più avanzati dei primi, che avrebbero minacciato i Paesi dell’area mediorientale e persino gli Stati Uniti.
Le tappe che hanno scandito l’implosione del teorema accusatorio, che ha fornito il pretesto per la guerra, meritano di essere ripercorse in rapida sintesi. Nel giugno del 2003 il capo degli ispettori ONU in Iraq Hans Blix ha esposto al Consiglio di Sicurezza il rapporto finale dell’UNMOVIC, dal quale è risultato che le ispezioni condotte prima della guerra non hanno riscontrato alcuna prova concreta relativa a programmi d’armamento e alla presenza in Iraq di tecnologie o armi proibite dalle risoluzioni ONU. La maggioranza dei quindici membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (incluso il rappresentate britannico) ha chiesto che l’UNMOVIC faccia ritorno in Iraq. Gli Usa si sono opposti immediatamente, nonostante sia ormai universalmente riconosciuto il valore dell’esperienza maturata in questi anni dall’UNMOVIC per affrontare le crisi internazionali di questo tipo.
Nel frattempo in Iraq, la mancata tempestiva protezione degli impianti di Tuwaitha da parte delle forze statunitensi consentiva il saccheggio delle installazioni che conservano materiale nucleare. Secondo la IAEA, si è trattato di una grave leggerezza, che potrebbe favorire il contrabbando di materiali radioattivi verso gruppi terroristici. Ciò che preoccupa maggiormente gli scienziati, tuttavia, è la contaminazione ambientale verificatasi, la più estesa dopo Cernobyl. A Tuwaitha erano immagazzinate ben 500 tonnellate di uranio allo stato naturale, 1,8 tonnellate di uranio a basso livello d’arricchimento e quantità minori di isotopi radioattivi impiegati nel programma nucleare degli anni ottanta, smantellato dopo il 1991. Un funzionario della IAEA ha dichiarato che materiali radioattivi potenzialmente letali sono scomparsi, provocando la contaminazione di intere aree e villaggi vicini.

Le pressioni inglesi
In Gran Bretagna la questione degli arsenali iracheni ha assunto i caratteri di una grave crisi politica. Secondo la testimonianza di Robin Cook, ex membro del governo Blair dimessosi per protesta contro la decisione di attaccare l’Iraq, il primo ministro sarebbe stato a conoscenza dell’infondatezza delle accuse mosse a Baghdad due settimane prima dell’inizio della guerra. Alastair Campbell, principale consigliere di Blair, è stato costretto alle dimissioni in seguito alla scoperta che il dossier presentato dal governo il 24 settembre 2002 era un maldestro collage tra una tesi di laurea compilata nel 1991 e le informazioni dei servizi di intelligence britannici. L’atmosfera si è fatta più pesante dopo il suicidio del consigliere del governo britannico David Kelly, accusato di tradimento dal primo ministro per aver passato agli organi d’informazione le prove dell’inattendibilità del dossier sulle armi irachene.
Ben due commissioni del Parlamento hanno svolto un’inchiesta sull’accaduto; nel corso dei lavori è apparso evidente come il Governo, pur di giustificare l’intervento militare, sia entrato in rotta di collisione con i servizi segreti sottoponendoli a enormi pressioni.
La stampa britannica ipotizza che, dopo la pubblicazione della relazione conclusiva, Blair cercherà di salvare il proprio mandato giubilando il ministro della Difesa Hoon.
Sullo scorcio del 2003, il teorema a sostegno della guerra preventiva è franato. Il rapporto preliminare, presentato in ottobre da David Kay a nome dell’ISG, afferma che non sono state rinvenute tracce evidenti degli arsenali iracheni, né prove della ripresa in grande stile di programmi d’armamento.
Lo stesso Kay, nei primi giorni del 2004, ha fatto trapelare l’ipotesi delle sue dimissioni, mentre 400 componenti dell’ISG incaricati di scovare depositi di armi e siti missilistici sono stati ritirati dall’Iraq. In dicembre si è verificato un incidente politico tra Blair e le autorità Usa, con il primo impegnato a rilasciare dichiarazioni sulla presenza certa di armi di distruzione di massa e il ‘governatore’ Usa in Iraq Bremer, pronto a smentire tali affermazioni. Sulla stampa britannica, dopo la cattura di Saddam Hussein, si sono susseguite analisi, ispirate a documenti e informazioni provenienti dall’intelligence, che propendono per la tesi del bluff: il passato regime iracheno avrebbe fatto credere di essere in possesso di terribili arsenali al solo scopo di scongiurare una invasione ritenuta inevitabile. Ai giornali britannici si è affiancato il Washington Post, pubblicando il 7 gennaio un lungo articolo dal titolo significativo: “L’arsenale iracheno era solo sulla carta”.

Retorica made in Usa
Questi fatti sembra non abbiano scalfito la pertinacia del presidente Bush che, facendo ricorso a un esercizio dialettico assonante con la teoria della guerra preventiva ma di dubbia consistenza sia logica che giuridica, ha dichiarato che non esisterebbero differenze tra l’ambizione di dotarsi di armi di distruzione di massa e il loro reale possesso.
Mentre il Presidente dava sfoggio di retorica, il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Condoleezza Rice, ha dichiarato che non esistono prove di un eventuale trasferimento, prima della guerra, degli arsenali proibiti dall’Iraq alla Siria.
La valanga di polemiche e contestazioni che ha investito l’amministrazione Usa si è poi accresciuta dopo le rivelazioni dell’ex segretario al Tesoro Paul O’Neill, licenziato da Bush per i dissapori in materia di politica fiscale. O’Neill sostiene, in qualità di ex membro del National Security Council e sulla scorta di documenti riservati in suo possesso, che l’occupazione dell’Iraq fu discussa e decisa nel gennaio-febbraio del 2001, mentre nel marzo di quell’anno già circolava uno studio del Pentagono relativo ai contratti per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio iracheno da parte delle compagnie straniere. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Blair ha smentito le proprie dichiarazioni sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq, evidenziando l’ennesima crepa nei rapporti tra Gran Bretagna e Usa.
Il fallimento della politica statunitense in materia di non proliferazione e disarmo, incentrata sulla demolizione sistematica del diritto internazionale, è stato reso ancor più evidente da due eventi positivi che si sono concretati solo grazie al ricorso ai negoziati e nella cornice di quanto previsto dai trattati in materia di controllo delle armi nucleari, chimiche e biologiche.

Buone notizie da Tehran
Nel febbraio del 2003 l’Iran ha annunciato di voler acquisire il controllo completo del ciclo del combustibile nucleare per la generazione di elettricità, decisione che ha provocato l’immediata accusa Usa relativa all’esistenza di un programma clandestino d’armamento nucleare. dirigenti iraniani hanno negato di voler realizzare la bomba atomica, autorizzando nel contempo le ispezioni della IAEA a impianti mai visitati dall’agenzia. Nell’estate del 2003, due rapporti della IAEA segnalavano la possibile violazione degli accordi previsti dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) in materia di garanzie contro la diversione degli impianti dagli impieghi civili. Nello stesso periodo alcuni circoli neoconservatori statunitensi hanno chiesto all’amministrazione Bush di affrontare il problema del cambiamento di governo in Iran.
Tehran ha risposto avviando una serie di negoziati e una vera e propria offensiva diplomatica dagli esiti molto importanti. Nell’ottobre del 2003, le autorità iraniane hanno sottoposto una dichiarazione alla IAEA in cui forniscono informazioni comprovanti la natura esclusivamente civile dei programmi in corso. La decisione è stata annunciata a conclusione di una missione diplomatica europea condotta dai ministri degli esteri francese, tedesco e britannico, a seguito della quale l’Iran si è impegnato a collaborare pienamente con la IAEA, sospendendo il processo di arricchimento dell’uranio (necessario anche per i programmi civili), condotto grazie ad attrezzature acquisite sul mercato nero negli anni ottanta, e a sottoscrivere il protocollo aggiuntivo del TNP, aprendo così le porte alle ispezioni; la firma del protocollo è avvenuta nel dicembre del 2003.
Indubbiamente si tratta di un successo per la diplomazia europea basato sul rafforzamento della collaborazione internazionale con l’Iran, in alternativa alla visione meramente punitiva sostenuta dagli Usa e continuamente invocata da Israele.
La vicenda valorizza la posizione dell’UE, incentrata su di una visione multilaterale saldamente ancorata allo strumento del negoziato, opposta a quella unilateralista e arbitraria degli Usa che, secondo alcuni osservatori, hanno perso la leadership politica nel campo del controllo degli armamenti. Il successo diplomatico europeo viene da più parti attribuito a una impostazione (adottata con la Dichiarazione del Consiglio europeo di Salonicco sulla non proliferazione delle armi di distruzione di massa) che ha saputo mettere a frutto, con l’importante coinvolgimento della Gran Bretagna, il peso strategico delle relazioni commerciali ed economiche con Teheran, applicando a seconda del grado di collaborazione dell’interlocutore sia provvedimenti restrittivi che incentivi.

Colpo di teatro a Tripoli
Nel dicembre del 2003, dopo mesi di negoziati segreti con Washington e Londra, la Libia ha annunciato di voler smantellare i programmi per la realizzazione di armi di distruzione di massa e ha accettato ispezioni immediate alle proprie installazioni. L’annuncio è stato portato ad esempio dell’efficacia della minaccia della guerra preventiva.
A ben vedere, tuttavia, i primi risultati delle visite della IAEA se da una parte evidenziano la preoccupante facilità d’accesso alle tecnologie nucleari a doppio uso (civile/militare) attraverso il mercato nero (peraltro con la connivenza degli Stati), dall’altra confermano la sostanziale incapacità di Tripoli di concretare i propri progetti. Si sta inoltre manifestando l’ennesima crisi nei rapporti tra IAEA e Stati Uniti, con questi ultimi decisi a gestire ‘in proprio’ le ispezioni e la divulgazione delle informazioni a esse relative.
A questo proposito alcuni commentatori hanno sottolineato l’importanza attribuita al Pakistan come sostenitore dei progetti libici, scelta che potrebbe preludere all’inserimento di questo Paese, oggi ‘alleato’, nell’asse del male. L’enfasi posta nell’annuncio sarebbe inoltre dettata dall’ennesima virata politica del leader libico, preoccupato di ottenere l’appoggio di Washington per tentare di risolvere i gravi problemi economici del Paese. Ciononostante, in tempi non

L'UNMOVIC
L’organismo delle Nazioni Unite è attualmente composto da 10 ispettori mobilitabili entro 24 ore. In pochi giorni è possibile attivare altre decine di esperti provenienti da più di 50 Paesi e operanti alle dipendenza dell’Onu in qualsiasi scenario di crisi.

Cfr. Federation of American Scientists, Working Group on Biological Weapons, UNMOVIC Could Help resolve Future Biological Weapons Crises, ago. 2003, consultabile all’indirizzo internet http://www.fas.org/bwc/
sospetti da Tripoli sono giunti segnali incoraggianti: nel gennaio del 2001 la Libia ha siglato il Trattato per l’interdizione degli esperimenti nucleari e ha manifestato l’intenzione di accedere alla Convenzione contro le armi chimiche.
Mentre è da anni palese la pericolosità e l’inutilità politica e militare della scelta operata da Egitto, Siria, Libia e Iran di contrastare il programma nucleare israeliano mediante la costruzione di arsenali chimici o biologici, Israele continua a non aderire al TNP e alla Convenzione contro le armi biologiche, e non ha ancora ratificato la Convenzione contro le armi chimiche e il Trattato di interdizione degli esperimenti nucleari.
Di recente il direttore generale della IAEA, è ritornato sulla questione dell’armamento nucleare israeliano, invitando Tel Aviv a seguire la strada scelta dal Sud Africa nel 1989, quando questo Paese abbandonò il programma nucleare militare aderendo al TNP. La IAEA, secondo il suo direttore, attualmente agisce come se Israele possedesse l’atomica, dal momento che le autorità del Paese non hanno mai smentito tale ipotesi.
Questa situazione contribuisce ad alimentare un clima di sfiducia nei confronti dei regimi per il controllo degli armamenti, soprattutto se essi non vengono rafforzati da solide garanzie di imparzialità ed efficacia, assicurate dalla comunità internazionale e da un processo politico condiviso volto alla rimozione delle cause dei conflitti. Di qui l’assoluta necessità di fare ogni sforzo per promuovere l’universalità del diritto internazionale in materia di disarmo, scelta completamente opposta a quella della discrezionalità egemonica attualmente adottata dagli Usa. La ripresa dei negoziati sul disarmo tra tutti i Paesi dell’area dovrebbe perciò costituire un punto qualificante all’ordine del giorno in qualsiasi percorso di pace.

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