Quei buchi neri della finanza
Gli Stati sempre meno in grado di decidere il loro futuro.
E la vita delle persone sempre più in balia di logiche folli.
La borsa, un nome pratico, concreto, reale, dato a una “cosa”, una “istituzione” così impercettibile, teorica, irreale… . La borsa è il “buco nero” della finanza, così come i “brevetti” sono il “buco nero” delle tecnologie. Sono i due “triangoli delle Bermude” della globalizzazione, che attraggono e divorano le ricchezze prodotte, le persone e i loro saperi. Finanza e tecnologia sono le “scatole nere” della globalizzazione, che racchiudono nella loro memoria tutti i segreti dei comandi impartiti e delle strategie perseguite. Naturalmente, come i serial killer, la finanza e le tecnologie hanno origine da una madre, probabilmente buona e generosa. La madre della finanza è la moneta e quella delle tecnologie è la tecnica. L’una e l’altra mosse dalla vocazione del servizio utile e umile: la prima per aiutare il risparmio e gli scambi tra persone, e tra produttori e consumatori; la seconda per alleviare la fatica delle persone nel realizzare il loro lavoro e i loro sogni. Poi, con il tempo, le cose cambiano e i comportamenti che suscitano oggi sono diversi. Oggi costituiscono le due “zone franche” della criminalità organizzata.
Un mondo senza leggi
Il tema è stato ripreso oltre che in numerosi convegni su criminalità e globalizzazione, nel rapporto “Un monde sans loi: la criminalité financière en images” (“Un mondo senza leggi: la criminalità finanziaria per immagini”), pubblicato da un gruppo di magistrati nel 1998 (ed. Stock, France). Nella sintesi del dossier la simbiosi tra finanza e tecnologia viene così descritta: “Oggi, i satelliti e le reti informatiche fanno circolare la moneta in un mondo senza leggi e senza frontiere. Il denaro sporco si accumula nei paradisi fiscali. Tutto ormai è permesso poiché niente si può più vietare. Sfuggendo al controllo dello Stato, la grande delinquenza economica e finanziaria prospera. Essa fornisce in abbondanza i capitali di cui i mercati finanziari hanno bisogno. Più i capitali criminali sono importanti, minore è il rischio di essere scoperti”.
Da tempo le “scatole nere” esercitano un grosso fascino sugli economisti in cerca di emozioni, di sfide professionali e di brillanti carriere. Alcuni ne vengono travolti e scompaiono dentro i “buchi neri” della borsa e dei centri di ricerca. La maggior parte torna tra noi nelle vesti di “contabili”, di “seri professionisti” affascinati dalla modernità e dagli “equilibri contabili” acquisendo posizioni importanti negli istituti finanziari dello Stato, nelle banche e nelle borse (e in qualche caso anche molto di più!). Pochi tornano disgustati, e quando ciò avviene il loro isolamento professionale e pubblico cresce in modo esponenziale, compensato tuttavia dalla simpatia e dall’affetto di pochi di noi.
Così fu per l’economista inglese Keynes, che dalle sue conoscenze della finanza e della borsa fece del problema del controllo e del ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali un obiettivo di vita. Segnalò il “livello stravagante” raggiunto dal criterio del tornaconto finanziario nel XIX secolo come guida per le scelte economiche. Keynes espresse ripetutamente il proprio disgusto etico e morale verso quello che definì “la parodia dell’incubo del contabile”, che già negli anni trenta appestava la professione dell’economi sta. Un delirio di potere e di onnipotenza, privo di valori, che li avrebbe spinti “a distruggere le bellezze naturali perché non hanno valore economico. Probabilmente saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo”.
Da Keynes a Caffè
In Italia questo ruolo di fustigatore dei poteri della finanza e delle borse in particolare venne assunto, dagli anni cinquanta in poi, da Federico Caffè. Riprendendo i temi di Keynes e sull’osservazione dei fatti italiani in tempi più recenti (anni ottanta) denunciò ripetutamente, anche se nel pressoché totale isolamento, i danni della borsa e le manovre che in essa si compiono a danno dei risparmiatori, insieme al silenzio ingiustificabile se non sospetto degli organismi preposti al controllo della finanza. Un silenzio che si interrompe invece quando si deve far richiamo al bisogno di risparmio e ai danni prodotti dall’inflazione, fingendo di ignorare che le perdite di reddito per i lavoratori prodotti dalla borsa sono spesso molto più grandi e destabilizzanti. Lo stesso, osservava Caffè, vale per i datori di lavoro e i sindacati disposti agli scontri più feroci per aumenti insensibili di reddito e ciechi di fronte ai grandi espropri prodotti dalla borsa.
Caffè, per temperamento e mestiere diverso da Pasolini che chiedeva la chiusura della televisione e della scuola, non ha chiesto la chiusura della borsa, anche se in cuor suo lo avrebbe desiderato. Fu tuttavia puntuale e implacabile nel denunciare il “gioco dell’uomo nero”, gli “incappucciati dell’economia”, sottolineando che spesso questi non vivono ai margini della società e delle istituzioni, ma dentro il sistema bancario e finanziario. Così come non esitò a polemizzare con la sinistra (Repubblica e Manifesto) quando questa a metà degli anni ottanta assecondarono le manovre dei centri finanziari (Mediobanca) e aprirono le porte al forte vento della “privatizzazione” e della “internazionalizzazione”.
I mali della finanza erano già evidenti con la crisi (borsistica!) degli anni trenta, ma non c’è dubbio che la finanziarizzazione delle economie occidentali prodotta dalla globalizzazione ne ha accresciuto il peso e il carattere distruttivo verso gli obiettivi di crescita e di benessere. Pur nella consapevolezza dell’impossibilità del mestiere dell’economista oggi, in sistemi economici dove la parte più importante dei flussi di merci e finanza (oltre che umani) è sconosciuta, alcuni dati registrabili o intuitivi esistono. Anzitutto poiché la metamorfosi subita dall’impresa capitalistica ha spinto grande parte di questa verso le piccole dimensioni e il settore “informale”, e un’altra parte fuori dalla produzione e verso i meccanismi dell’intermediazione finanziaria e tecnologica. Il luogo d’incontro di questi due mondi è la borsa che, come il ben noto gioco delle tre carte, è il luogo delle beffe organizzate a danno dei produttori deboli e dei risparmiatori.
Nel bilancio di tutte le grandi imprese la quota di utili provenienti dai “servizi” e “utili “finanziari” è maggiore di quella della produzione. “Una massa gigantesca di capitali passa ogni giorno di mano in mano sul mercato dei capitali. Oggi rappresenta 1.300 miliardi di dollari al giorno: circa cinque volte il bilancio annuale di uno Stato come la Francia…” (Rapporto citato sulla criminalità, p. 28). I titoli di borsa scambiati alla borsa di Parigi erano nel 1975 il 20% del bilancio dello Stato francese e nel 1995 superavano del 20% lo stesso bilancio.
E l’economia reale?
Ma gli effetti distortivi del “gioco” di borsa non finiscono qui. I vortici finanziari che trascinano le economie di interi Paesi nella crisi hanno origine in questo ambiente, sapientemente architettati dai centri finanziari con l’ausilio delle banche. Questo avvenne per la crisi finanziaria in Asia alla fine del secolo scorso, anche se con successi limitati rispetto agli obiettivi di guadagno e di destabilizzazione che ci si era proposti. Questo avviene periodicamente e sempre con molto successo in America Latina (Messico, Argentina, Brasile ecc.). Ma la borsa agisce anche come redistributore dei risparmi di alcuni risparmiatori e a sfavore di altri.
Quello che le finanze statali riescono a stento a fare con il sistema fiscale e per obiettivi di equità riesce molto bene alle borse per obiettivi di rapina e senza eccessiva contestazione. I famosi “investitori istituzionali” comprendono anche, ad esempio, i ricchi fondi pensione dei Paesi occidentali e statunitensi in particolare. Questi fondi attraggono con i loro titoli i risparmiatori dei Paesi poveri, che sperano in questo modo di mettere al sicuro le loro fatiche. Questi acquisti fanno aumentare di per sé il valore dei titoli e quindi i redditi dei pensionati ricchi. Ma questo non basta. Una ben congeniata manovra di borsa fa crollare questi titoli al vertice del loro valore, ne provoca la vendita a prezzi bassissimi e l’immediato riacquisto di chi può permetterselo, cioè dei fondi pensione più o meno nascosti dietro le banche e gli operatori finanziari. Le porte della borsa, tenute temporaneamente chiuse, si riaprono per il prossimo girone e il gioco e fatto.
L’intreccio tra finanza e economia reale è stata una delle linee guida dello sviluppo capitalistico. Sin dall’inizio se ne erano annunciati gli effetti perversi che questo avrebbe potuto produrre sulle comunità e le società organizzate. Non solo per l’economia, ma per i rapporti sociali e umani in genere. L’avversione per il denaro da parte di San Francesco nasceva da questa intuizione. Quando Marx, nello studio del circuito economico, riflette sul cambio che si determina passando dal rapporto Merce-Moneta-Merce a quello Moneta-Merce-Moneta, capisce la deriva verso la mercificazione forzata e infine l’alienazione del genere umano prodotta da uno “sviluppo” che, per definizione, non ha limiti materiali.
Ma con la globalizzazione non c’è più intreccio. Si crea un sistema economico che, mediante la finanza e le tecnologie, assoggetta al suo controllo il mondo dell’economia reale. Si produce così un’idea di “guadagno” più vicina alla mentalità mafiosa che a quella di “profitto” del “vecchio” capitalismo industriale. Un nuovo capitalismo che riscuote tangenti su tutto ciò che si produce (“da altri”), si vende (“da altri”), si inventa (“da altri”). Ma, come in ogni organizzazione mafiosa, economia e potere sono strettamente legati. Alle difficoltà di leggere i fatti dell’economia (per lo più ignoti), si aggiunge quella di interpretarne le politiche (per lo più segrete). Trovo strano che il recente scandalo finanziario della Parmalat venga letto in chiave esclusivamente economica, di tesori nascosti e di arricchimento indebito. Possibile che il forte coinvolgimento degli istituti di controllo e finanziari statunitensi (che di certo non sono inavveduti) e i movimenti di capitali verso Paesi dell’America Latina, soggetti in questi ultimi anni a forti turbolenze, non suggeriscano qualcosa di più che coinvolga la geopolitica in quelle zone e in Italia?
Cento Studi Federico Caffè, Università di Roskilde, Danimarca