MINORI

I bambini e la violenza in casa

Intervista a Nicoletta Livi Bacci, presidente dell’Associazione fiorentina Artemisia.
Andrea Bigalli e Roberta Marchiani

Nelle raffigurazioni dei nostri mondi, della società di cui facciamo parte, tendiamo più o meno consciamente a farci delle immagini che escludano la realtà della sofferenza. Consapevoli che tale sofferenza esiste e ha delle motivazioni, ci risulta forse particolarmente inaccettabile considerare quel dolore che si origina dalla violenza. Se poi riflettiamo sul dato che la violenza si può scatenare nell’ambiente a noi più prossimo, più vicino e intimo, possiamo arrivare a pensare che non esistano dimensioni di sicurezza nelle nostre esistenze. Pensiamo a che cosa può accadere quando chi vive questa esperienza è un bambino. E riflettiamo anche sul dato che questa è la quotidianità per una parte del nostro mondo, non poi così ristretta o lontana come ci sembra. Anche questo è un volto della guerra, quella guerra che non è solo assenza di conflitti, ma pratica di aggressività, tanto più facile (e gratuita) quando la si esercita su di un soggetto debole e indifeso.
Il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) si pone il problema di quella violenza sul minore che non si esercita in forma diretta, ma a cui il bambino assiste, con tutto quello che ne può derivare. Le conseguenze dell’assistere ad atti di violenza in famiglia può essere disturbante quanto le violenze vissute in prima persona. È questa l’idea che ha animato lo scorso congresso, il 3° promosso dal CISMAI a livello nazionale e organizzato da Artemisia, associazione fiorentina che si impegna da tempo sul fronte dei maltrattamenti alla donna. L’intervista che segue è a Nicoletta Livi Bacci, presidente di questa associazione.

Quali sono le realtà che confluiscono nella ideazione e nella preparazione di questo congresso?
È il terzo congresso del CISMAI. È un congresso tematico sui bambini che assistono alla violenza domestica e l’organizzazione è a cura dell’Associazione Artemisia di Firenze, che si occupa di donne, di bambini e bambine che subiscono maltrattamenti e abusi e di donne adulte che durante l’infanzia hanno subito maltrattamenti. La nostra associazione ha alle spalle l’esperienza di una casa-rifugio per situazioni a rischio, e abbiamo visto la sofferenza dei bambini che, pur non essendo maltrattati direttamente, assistono comunque a maltrattamenti sulla madre o sui fratelli e ci interessava fare un’opera di sensibilizzazione rispetto a questo problema: un problema molto sottostimato perché normalmente di un padre che picchia la madre davanti a un bambino, ma che però non picchia il bambino si dice che è un buon padre… ma non è così…

Come incide il fenomeno sulla società contemporanea?
Forse è la società contemporanea che lo produce. Il maltrattamento domestico del marito nei confronti della moglie è abbastanza tollerato: si tratta purtroppo di una questione che riguarda la nostra cultura. Ultimamente direi che si è abbassata la soglia della tollerabilità, ma è comunque considerata una realtà non del tutto inaccettabile. Noi lo vediamo per esempio quando le donne vanno a sporgere denuncia alla polizia. I poliziotti si trasformano immediatamente in assistenti sociali che cercano di far fare pace: invece dovrebbero far scattare delle misure di protezione, non si pensa che la donna sia in pericolo. Direi allora che forse è il contrario: la società contemporanea in qualche maniera è tollerante nei confronti di questo problema. Problema che peraltro c’è sempre stato, adesso sta emergendo con maggior chiarezza.
Ci sono in tutta Italia circa 100 centri antiviolenza per le donne, che hanno fatto informazione a riguardo, per cui le donne non pensano più che sia un loro destino inevitabile quello di essere maltrattate, ma sanno che ci sono delle possibilità di uscirne fuori, quindi si rivolgono a noi. Contrariamente a quello che si pensa, nella nostra legge il maltrattamento è procedibile d’ufficio, è quindi considerato un reato grave: il fatto che ciò accada a opera di una persona che la donna conosce e di cui ha fiducia è un’aggravante. Se io ricevo un pugno da uno sconosciuto per la strada immediatamente scattano tutte le misure di protezione, lui viene fermato, ecc.. Se lo fa mio marito tutti pensano che stiamo litigando e che vogliamo far la pace.
Un altro stereotipo è che questo accada principalmente nelle classi meno abbienti. Questo non è vero, anzi direi che forse le donne che appartengono a classi sociali più elevate sono maggiormente a rischio, perché hanno più difficoltà a denunciare; sia perché in qualche maniera è più difficile denunciare una persona che ha una posizione sociale di rilievo, sia perché da questo hanno molto più da perdere. Contrariamente a quello che si pensa in realtà le donne della media-alta borghesia sono più a rischio: i centri hanno questo vantaggio: dal momento che noi garantiamo al soggetto violato anonimato e riservatezza, vengono da noi anche queste donne che non si presenterebbero mai a un assistente sociale.

Si può parlare di un’azione preventiva nel campo del maltrattamento dei minori?
Certamente, si può e si deve. Qui a Firenze l’Associazione Artemisia ha proposto corsi alle forze dell’ordine, agli assistenti sociali, agli operatori sociosanitari. Abbiamo predisposto un bel programma di informazione anche per le scuole, proprio sull’abuso sessuale: il progetto Dafne. Abbiamo realizzato un video rivolgendo delle domande ad alcuni ragazzi, a cui è seguita una discussione. È stato molto interessante: sono emersi tutti gli stereotipi rispetto all’abuso sessuale e non solo, anche delle cose molto belle e interessanti. Questo video è stato realizzato proprio per essere ripresentato ad altre classi scolastiche, in modo che tra i ragazzi nasca una discussione, facilitata dal fatto che sono dei loro coetanei che parlano di questi problemi. Infatti è un progetto che sta andando molto bene: è un progetto europeo, lo stiamo realizzando non solo con altri enti italiani, ma anche con realtà spagnole, portoghesi, inglesi, rumene e tedesche.

Il congresso si è posto l’impegno di identificare delle risoluzioni pratiche, delle linee di condotta per gli ambiti scolastici familiari educativi?
Lo scopo di questo congresso era proprio quello di portare alla luce dei nodi problematici rispetto alla valutazione del problema, alla protezione e alla tutela dei maltrattati. Come dicevo all’inizio si tratta di un problema sottostimato, ma estremamente doloroso nelle conseguenze: i bambini che assistono alla violenza domestica hanno disturbi uguali ai bambini che subiscono maltrattamenti diretti, forse qualcuno in più nel senso che spesso sono bambini iper responsabilizzati, c’è proprio uno scambio del ruolo. Spesso è il bambino che protegge la madre, invece del contrario, sono bambini che hanno veramente bisogno di essere aiutati.
Ciò che ci attendiamo da questo congresso, prima di tutto, è fare sensibilizzazione. Mi sembra che ci siamo riusciti: si sono iscritte 1300 persone, ne avevamo previste 700… è stato veramente un successo strepitoso! Hanno partecipato tantissimi giovani, che abbiamo cercato di facilitare con una quota molta bassa di iscrizione perché a noi interessa che le nuove generazioni che cominciano a lavorare nei servizi sociali ci arrivino “con gli occhi aperti”. In queste situazioni c’è tutta una famiglia problematica su cui intervenire: una madre che è maltrattata, un bambino che soffre, un maltrattante. Se ne occupano persone diverse che non entrino in conflitto fra di loro.
È importante che si crei una rete fra i diversi servizi in modo che l’intervento sia il più efficace possibile.

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