9 agosto 2012, commemorazione dell'uccisione del Beato Franz Jagerstatter obiettore di coscienza al militare e alla guerra

Eroi per la pace o vittime della guerra?

3 settembre 2012 - Pax Christi Italia

cappellani militari Davanti ad ogni vita umana stroncata è doveroso un rispetto profondo. Ma proprio in nome di tutte le vittime delle guerre, chissà quanti lettori di Avvenire sono rimasti scossi per quell’intera pagina dedicata agli “eroi per la pace”, e a quella realtà così “convergente” di soldati e cristiani (8 agosto 2012, pag.3).
Ecco, lo diciamo forte: è davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante.
Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della “missione” e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre - chiamate appunto “missioni di pace” - ma in realtà “avventura senza ritorno”. Da sempre abbiamo presentato ai cristiani gli eroi della fede e ci scandalizziamo se ora volete rappresentarli con le armi in mano e, per nascondere le responsabilità di tanto sangue versato in questa “inutile strage”, fate diventare “eroi per la pace” questi giovani strappati alla loro vita, vittime della guerra.
Ci colpisce non veder affiorare nemmeno uno degli interrogativi che gli italiani e i cristiani si pongono ormai da anni, assistendo alla fallimentare carneficina afgana: La nostra presenza militare in Afghanistan costa 2 milioni di euro al giorno, e quali sono i risultati? Se li avessimo investiti in aiuto alla popolazione con ospedali, scuole, acquedotti non avremmo forse tolto consenso ai talebani e ai signori della guerra? E delle vittime in ‘campo nemico’ chi se ne occupa? Abbiamo i numeri esatti dei morti e feriti italiani! E quante sono le vittime irachene o afghane? Forse dobbiamo rassegnarci a considerare le migliaia di esseri umani uccise in questa assurda guerra solo “effetti collaterali”?
Ci colpisce molto leggere che anche l’Ordinario militare si allinea a questa retorica della guerra dichiarando, per esempio che fare il militare è “una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana” oppure sostenendo che “i cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace”. Ce ne vuole davvero a descrivere “l’aeroporto di Ciampino dove arrivano le salme dei nostri soldati uccisi” come “una scuola di fede”. E ancora “Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti”. Come cristiani e come sacerdoti restiamo stupiti per questo assai strano insegnamento magisteriale e, alla luce del Vangelo, siamo sconcertati.
Siamo certi che anche il Direttore di Avvenire, oltre che ovviamente il Vescovo Pelvi, ben conosca la sapienza ecclesiale, supportata dal Magistero della Santa Sede, che ci ha insegnato a discernere i diversi modi di affrontare i conflitti internazionali, a partire dalle testimonianze dei primi martiri cristiani, che rifiutavano il servizio militare e non bruciavano il grano d’incenso all’Imperatore considerato una divinità. Come non ricordare il martirio di S. Massimiliano (295 d.C.) condannato a morte “poiché, con animo irrispettoso, hai rifiutato il servizio militare” “quia in devoto animo militia recusasti”) E quante testimonianze di martiri dei nostri giorni abbiamo ancora da raccontare.
Proprio oggi, 9 agosto la Chiesa ricorda il Beato Franz Jagerstatter, obiettore di coscienza contro il servizio militare nel III Reich di Hitler (mentre la maggior parte dei cattolici combattevano) e per questo ghigliottinato il 9 agosto 1943. È stato Papa Benedetto XVI, nel 2007, a proclamarlo beato e martire nel suo opporsi al servizio militare e alla guerra!
Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare, oggi non più legato all’obbligo della leva, e della presenza dei Cappellani tra i militari, magari proprio con il direttore di Avvenire e l’Ordinario militare. L’unica occasione di confronto risale al lontano 1997, in un convegno a Firenze promosso da Pax Christi, con un rappresentante dell’Ordinario Militare. Come era stato detto allora ribadiamo l’esigenza che “ si ritorni a discutere sul ruolo dei Cappellani Militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II crediamo doveroso riaprire un riflessione seria sulla condanna della guerra e sulle strade che sono chiamati a percorrere gli operatori di pace.

PER ADERIRE a questa Lettera-appello: inviare una mail con il proprio Nome, Cognome e Città a drenato@tin.it oppure a nandyno@libero.it

Info: www.paxchristi.it

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Il nostro scandalo mi dispiace e – devo ammetterlo – un po’ scandalizza anche me che pure ho imparato ad ascoltare sempre con amore e rispetto i sacerdoti che incontro sul mio cammino di uomo. Mi colpisce per i modi (ancora una volta l’avete polemicamente inviata a mezzo mondo, prima che a questo giornale) e per i toni usati. Ma soprattutto per la sentenza senza appello che emettete, reverendi lettori, nei confronti dei soldati italiani che, se caduti o rimasti feriti, proclamate «vittime» ma subito dopo dipingete come parte di un gruppo di portatori di «strage», come complici di una masnada intenta a far «carneficina» in Afghanistan. E il problema, serissimo dal mio punto di vista, è che non state parlando dei taleban, ma dei nostri soldati e persino dei nostri cappellani militari. Credo che non ci sia vero «rispetto» in questo. Credo che sostenerlo sia contro la verità e contro la carità, e francamente non riesco a catalogarlo come un esempio di ragionamento non-violento.
Detto questo, non penso che tutto ciò che fanno i soldati italiani impegnati in missioni internazionali sia perfetto e perfettamente pacifico. Ma so con sicurezza che non sono i nostri soldati in Afghanistan o in Libano o nei Balcani a seminare guerra e oppressione nel mondo. E constato che servono con dedizione il Paese e le Nazioni Unite in contesti difficilissimi e segnati dal sangue (a proposito: pure voi dovreste sapere – sebbene, per strano amor di polemica, dimostriate il contrario – che per noi di Avvenire il sangue degli uomini e delle donne non ha nazionalità). Un servizio reso secondo regole ispirate ai valori della Costituzione repubblicana e, grazie a Dio, con un’umanità arricchita e resa salda dalla fede cattolica che ha plasmato la nostra cultura nazionale. Se così non fosse, da cronista lo testimonierei. Come ho testimoniato assieme ai miei colleghi i "tradimenti" compiuti in diverse parti del mondo (da ultimo in Congo) da militari di diverse nazionalità, alcuni dei quali indossavano il casco blu dell’Onu. Altro che retorica bellica…
Anch’io, reverendi lettori, amo le grandi e coraggiose figure di testimoni del bene e mi sforzo di capire e vivere sempre meglio il prezioso insegnamento della nostra Madre Chiesa. Anche a proposito della pace che, come ci ricorda Papa Giovanni XXII nella "Pacem in terris", è realmente tale quando garantisce una degna convivenza tra gli esseri umani «nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà». Ma qui vorrei affidarmi soprattutto alla voce e alla sicura guida di Papa Benedetto, con alcune citazioni dal discorso da lui rivolto in Vaticano, il 26 ottobre 2006, ai partecipanti al V Convegno internazionale degli Ordinariati militari e nel quale ricorda con chiarezza che «il magistero della Chiesa sul tema della pace costituisce un aspetto essenziale della sua dottrina sociale», ne sottolinea le «radici antichissime» e lo sviluppo «nell’ultimo secolo in una sorta di "crescendo" culminato nella Costituzione pastorale "Gaudium et spes"», nelle Encicliche di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II oltre che negli interventi pontifici all’Onu e nei Messaggi per le Giornate mondiali della Pace. Annota il Papa: «Questo insistente richiamo alla pace ha influito sulla cultura occidentale promuovendo l’ideale che le forze armate siano "a servizio esclusivo di difesa e di sicurezza e della libertà dei popoli"». E aggiunge: «Purtroppo talora altri interessi – economici e politici – fomentati dalle tensioni internazionali, fanno sì che questa tendenza costruttiva trovi ostacoli e ritardi, come traspare anche dalle difficoltà che incontrano i processi di disarmo. Dall’interno del mondo militare, la Chiesa continuerà a offrire il proprio servizio alla formazione delle coscienze, certa che la Parola di Dio, generosamente seminata e coraggiosamente accompagnata dal servizio della carità e della verità, produce frutto a suo tempo».
C’è un passaggio altrettanto illuminante che vorrei riprendere e che è dedicato alla "Spirituali militum curae", la Costituzione apostolica che, proprio alla luce del Concilio Vaticano II, Papa Wojtyla dedicò all’assistenza spirituale dei militari. Benedetto XVI ricorda che questo documento «cita espressamente nel proemio» la "Gaudium et spes", ricordando «che quelli che prestano servizio militare possono considerarsi "come ministri della sicurezza e della libertà dei popoli", perché "se adempiono il loro dovere rettamente, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace" (GS, 79)». E conclude: «Se dunque il Concilio chiama ministri della pace i militari, quanto più lo saranno i Pastori a cui essi sono affidati! Pertanto, esorto tutti voi a far sì che i cappellani militari siano autentici esperti e maestri di quanto la Chiesa insegna e pratica in ordine alla costruzione della pace nel mondo».
Da semplice cristiano, reverendi lettori, penso che valga la pena di continuare a rifletterci su, come è da sempre costume di questo quotidiano. Da uomo del mio tempo, resto convinto che resti fondamentale far tesoro sia della capacità di indignazione e di ben proporzionata vigilanza e reazione di fronte al male e all’ingiustizia, sia della forza coinvolgente della profezia disarmata. Mi hanno insegnato, e credo fermamente, che con valori saldi, occhi onesti e parole giuste lavorare in questa direzione sia impegnativo e arduo, ma possibile.
Marco Tarquinio
Direttore di Avvenire
Info: www.avvenire.it

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Queste quattro lettere non sono le uniche ma sono le ultime che intendo pubblicare sulla polemica, che ho già giudicato male impostata e peggio condotta, contro la pagina che abbiamo dedicato ai caduti e ai feriti italiani nelle missioni militari internazionali alle quali il nostro Paese ha contribuito negli ultimi decenni sempre e solo su mandato dell’Onu (con l’unica eccezione della guerra del Kosovo, 1999). Si tratta di scritti che mi hanno colpito per la diversa forza, per la profondità e per la comune civiltà dei toni. Non ho paura delle polemiche, ma amo la pacatezza tanto quanto amo la verità. Credo che la prima faccia risaltare ogni briciola della seconda, e cerco di raccoglierne più che posso. Facendone tesoro, come faccio tesoro di ciò che la Chiesa – madre e maestra – insegna. E facendo di tutto per mantenere gli occhi sgombri. Anche perché da figlio di una terra di pace, e ricca di ulivi, com’è la mia Umbria ho imparato assai presto (e mai dimentico) che la realtà è una, ma spesso è vista e vissuta in due maniere, proprio come foglia d’ulivo.
Quanto alle domande alle quali non avrei risposto, chiarisco ancora una volta che non posso (e non voglio) ripetere ogni volta che qualcuno lo pretende con tono inquisitorio e lievemente insultante (e sia chiaro che non ce l’ho con lei, gentile dottor Usvelli) tutto quello che a me e ai miei colleghi è capitato di scrivere facendo sulle pagine del quotidiano di ispirazione cattolica il nostro mestiere di cronisti e di commentatori.
Comunque, in sintesi, ecco qualche punto fermo. Penso che solo gli esaltati, gli insensibili o gli stupidi non capiscano che la realtà della guerra, di ogni guerra, è la tragedia. Penso, come ho scritto domenica scorsa 12 agosto, che se è vero che «non tutto ciò che i soldati italiani impegnati in missioni internazionali» fanno è «perfetto e perfettamente pacifico», è almeno altrettanto vero che oggi «non sono i nostri soldati a seminare guerra e oppressione nel mondo», e comunque non lo fanno né in Afghanistan, né in Libano, né nei Balcani. Penso che solo commettendo una grave ingiustizia si può qualificare come “assassino” chi affronta e cerca di fermare gli assassini, i violenti, i distruttori di civiltà e di speranza. E questo perché penso – come tantissimi uomini e donne cristiani o di altre fedi o visioni filosofiche – che fermare e sconfiggere i nazisti e i loro alleati sia stato giusto e inevitabile eppure questo non mi impedisce di giudicare un terribile misfatto che i “giusti” abbiano deciso di radere al suolo Dresda e di distruggere Hiroshima e Nagasaki. Penso, insomma, che l’«ingerenza umanitaria» contro gli oppressori e terroristi taleban sia stata necessaria e tuttavia affermo (come ho e abbiamo scritto molte volte) che certi bombardamenti e certi atti anti-umani e anti-religiosi di forze della Nato (e per la quale la Nato si è dovuta scusare) siano a loro volta terribili misfatti.
Un’ultima battuta, sul “costo” del soccorso militare ai Paesi scelti dalle Nazioni Unite. Vorrei non soltanto che il costo della missione italiana in Afghanistan, ma che tutto ciò che si spende in armi venisse, invece, destinato a investimenti per debellare la fame nel mondo, per sconfiggere le malattie che fanno strage soprattutto tra i poveri, per creare lavoro, per educare nella libertà le nuove generazioni. Spero, e mi sforzo di fare qualcosa, perché questo accada. Ma vorrei – e continuo a reclamare – ogni ragionevole certezza (è solo un esempio, ma niente affatto casuale) che tutti i bambini e tutte le bambine siano tenuti sullo stesso piano ricevendo ovunque le stesse occasioni e attenzioni. E vorrei che ovunque le donne e i diversamente credenti (quasi sempre i cristiani) non fossero confinati in una umiliante sotto-categoria dell’umano. So bene che non è per questi nobili motivi che gli uomini da millenni si fanno la guerra, ma senza di essi, e senza persone disposte a battersi per essi, non si costruisce davvero la pace.

Marco Tarquinio
Direttore di Avvenire

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