Prigionieri nel deserto

I migranti in fuga dal Sahel. Tragedie che si sommano a tragedie. Sulle rotte italiane.
Sara Prestianni

Li vediamo sbarcare in barconi fatiscenti al porto di Lampedusa o sulle coste siciliane. Stanchi, assetati, spesso malati. Ma poco o niente si sa sui Paesi da cui provengono e ancora meno di quello che hanno subito nel lungo viaggio, durato mesi, a volte anni, che hanno dovuto affrontare prima di prendere il mare. Quel viaggio, chiamato transito, si è svolto nella maggior parte dei casi attraverso il Sahel: Niger, Mali, Algeria. Sulla traversata del deserto, che sia quello del Nord del Mali, del sud dell’Algerie, o il Teneré, tra il Niger e la Libia, i racconti si fanno eco per la loro tragicità. Giorni passati in camion stracarichi di uomini, penuria o, a volte, assenza d’acqua, compagni di viaggio visti morire perché il camion ha avuto un guasto e li ha abbandonati in balia di loro stessi. Il Sahel si è trasformato in un cimitero, cosi come da anni lo è il mar Mediterraneo.

La rotta libica
Una delle rotte principali verso l’Italia è quella libica. Da lì transitano sia i rifugiati del Corno d’Africa, somali, eritrei o etiopi, che, dopo l’attraversamento del Sudan, entrano in Libia via Kufra, sia i migranti di vari Paesi dell’Africa subshariana, Mali, Niger, Burkina Faso, Senegal, Camerun e Nigeria, tra gli altri, che transitano per il Niger per entrare in Libia, via Sebha. Non tutti i migranti arrivati in Libia intendono tentare il passaggio verso l’Europa. Quella di strumentalizzare la presenza dei migranti sul suo territorio, facendo credere che orde di persone sarebbero pronte a invadere l’Italia, è una delle principali tecniche di trattativa con l’UE sviluppata da Gheddafi. In questo modo, sotto la minaccia dell’invasione, si poteva permettere di aumentare la pressione verso i suoi interlocutori europei per ottenere maggiore contropartita alla firma di accordi d’espulsione. Di fatto molti migranti si recano in Libia per lavorare, guadagnare dei soldi e tornare nel loro Paese d’origine. Ma, spesso, quello che trovano è un vero e proprio inferno.
La prima tappa del viaggio “clandestino” verso la Libia, comincia ad Agadez, a 800 km dalla capitale Niamey. La gestione delle numerose ribellioni hanno creato uno stato d’insicurezza che ha soffocato la prima fonte di sussistenza della regione, il turismo. Una delle principali economie ora è quella dei migranti. Sono quasi 100 i “ghetti” dove i migranti vivono in attesa della partenza. Ogni lunedì mattina partono i convogli di camion che si dirigono verso nord. Dopo Agadez i migranti arrivano a Dirkou, altra città in cui tutto sembra ruotare attorno al business dell’immigrazione. In questa oasi ci sono solo militari e migranti, di cui centinaia di nigeriane, vittime della tratta, che finiranno, in parte, schiave sui marciapiedi italiani. A Dirkou devono ripagare il prezzo del biglietto del viaggio prostituendosi.
Una volta entrati in Libia, all’altezza di Sebha, il controllo dei flussi passa in gestione alla tribù libica dei Toubou. In questa zona i migranti parlano di una pratica frequente di “kidnapping”. Anche se spesso hanno pagato il trasporto fino a Tripoli, sono “rapiti” da trafficanti che li minacciano di morte se non danno loro altri soldi. Rinchiusi in case-prigioni per giorni, per uscire sono obbligati a chiamare a casa e farsi mandare via western union dei soldi per essere liberati. Solo quando i rapitori avranno ottenuto i soldi richiesti, li lasceranno uscire dalle case e i profughi saranno liberi di pagare un altro trafficante che li porterà fino a Tripoli o Bengasi. La stessa pratica si sta sviluppando nel triangolo desertico tra Sudan, Ciad e Libia, per i profughi del Corno d’Africa provenienti dal Sudan.
Una volta arrivati nelle città del nord, c’è chi cercherà di trovare lavoro nel mercato libico, in ripresa dopo la battuta d’arresto subita durante il conflitto, altri cercheranno di nascondersi fino a quando contratteranno un passaggio per l’Europa. Ma il percorso verso Lampedusa è costellato di pericoli. Così come era pratica all’epoca della dittatura Gheddafi, anche il nuovo governo libico ha aperto una reale caccia al nero. Sia nelle case dove vivono reclusi, nelle strade delle città libiche, nei posti di lavoro dove provano a racimolare i soldi per il passaggio in mare, i miliziani e i militari libici praticano retate massive utilizzando come unico criterio quello del colore della pelle. Sono almeno una ventina i centri di detenzione sparsi in tutto il territorio libico. Alcuni erano in funzione già all’epoca di Gheddafi, tra i più conosciuti quello di Misurata, di Toweisha alle porte di Tripoli, di Kufra nel sud del Paese. I centri di detenzione libici sono dei veri e propri luoghi di non diritto.

Condizioni di vita
All’interno i migranti rischiano di essere picchiati e torturati senza alcuna ragione. I racconti che fanno della loro permanenza in questi centri sono raccapriccianti. Rinchiusi in celle senza poter mai vedere la luce del sole per mesi interi, i migranti sono fatti uscire dai loro aguzzini solo una volta al giorno, per il pasto, riso o pasta in bianco. Donne incinte e malati non hanno mai accesso a un medico, che non è contemplato nell’organico del centro di detenzione, composto solo da militari.
Dopo la rivoluzione, i centri sono diventati monopolio delle milizie di Katiba, soltanto da poco il governo centrale ha recuperato il controllo solo di quelli nel nord. Gestire un centro é una forma di business. Si guadagnano dei soldi con la pratica del lavoro forzato: i libici, che cercano mano d’opera, vanno nei centri, pagano chi li gestisce e fanno uscire dei detenuti per sfruttarli nei campi o nelle industrie, per poi riportarli all’interno del centro una volta finito il lavoro. Si guadagnano dei soldi con i migranti che, disperati, pur di uscire dai centri, pagano i “gestori” per la loro libertà. Si guadagnano dei soldi quando i migranti arrivano, facendo loro una perquisizione corporale per recuperare qualsiasi cosa sia in loro possesso. Quando parlano dei centri di detenzione libici, lo sguardo dei migranti si vela di profonda tristezza: “Ci gridano in arabo, noi non capiamo quello che dicono, e loro gridano ancora più forte. A volte ci picchiano, con tutto quello che trovano, con sedie, con cavi elettrici, con fucili. Alcuni di noi sono stati uccisi. Senza un motivo ben preciso”. Queste informazioni sarebbero corroborate da un comunicato del ministero degli Affari esteri di poche settimane fa, in cui si parla di 8 migranti nigeriani morti nei centri di detenzione libici. In questo inferno i migranti trascorrono spesso vari mesi. Per uscire o sono costretti a pagare i loro aguzzini o aspettano che il loro consolato li riconosca e accetti il ritorno, organizzato dall’OIM.

Dal Mali all’Algeria
Quella libica non è la sola rotta dei migranti nella regione saheliana. Un’altra, molto attiva fino all’inizio dell’operazione Serval, è quella che dal Mali porta in Algeria: da lì i migranti andavano o in Marocco, per entrare poi in Europa per le enclavi spagnole o attraversando lo stretto di Gibilterra, o entravano in Libia, passando per la città di Djanet. A Gao, come ad Agadez, sono numerosissimi i “ghetti” dove si aspetta il passaggio. Alle porte della città i bus provenienti da Bamako si fermano, solo gli stranieri sono fatti scendere; qui li aspettano i “coxer”, intermediari tra i migranti e i proprietari dei ghetti che li introducono nel “circuito migratorio”. Anche i poliziotti prendono la loro parte, chiedendo 10 000/15 000 FCFA (25/30 euro) ad ogni straniero. I maliani non hanno bisogno di visti per andare in Algeria, ed è cosi che a Gao e a Bamako i migranti di vari Paesi dell’Africa sub-sahariana si trasformano in maliani, comprando una nuova identità.
Da Gao il passaggio si fa per le piste, fuori dai circuiti, entrando in Algeria passando per Borj Mokthar. Ma i controlli in Algeria sono sempre più forti, ed è così che in molti, dopo aver passato qualche mese lavorando ad Algeri o nel tentativo di passaggio in Marocco e Libia, sono arrestati e detenuti. Seppur in condizioni similari, a differenza della Libia, in Algeria la detenzione è più breve. Ogni due/tre settimane sono trasferiti in un centro più a sud, fino ad arrivare a quello più grande di Tamnarasset. Da qui l’Algeria organizza dei convogli di espulsi, e, attraversato il deserto, “li riversa come se fossero spazzatura” – come un migrante stesso mi ha detto – nella città frontiera tra Algeria e Mali, Tinzaouaten. Tinzaouaten è conosciuta come la “città della follia”. Ben pochi passano da là, e spesso i migranti aspettano giorni e giorni in un no man’s land desertico prima di raggiungere la città di Kidal, da dove o riprendono il cammino verso nord o ritornano nel Paese di origine.
Quello del transito diventa così, spesso, un’erranza senza, fine costellata di detenzione, respingimenti, deserto e violenze. Un’erranza che spesso non si conclude neanche con l’arrivo in Europa, ma con un tragico ritorno nel Paese d’origine, a mani vuote. A volte il transito si trasforma in installazione, ed è cosi che i migranti tentano di rifarsi una vita in Algeria e in Marocco, perseguitati da Paesi che sono finanziati dall’Unione Europea e dagli Stati membri per fare i gendarmi dell’Europa. La pratica dell’esternalizzazione del controllo alle frontiere esterne è diventata uno dei pilastri delle politiche d’immigrazione europee e degli Stati membri. Si chiede ai Paesi limitrofi, pur sapendo che essi violano sistematicamente le convenzioni internazionali e i diritti fondamentali, di bloccare i migranti prima che raggiungano il suolo europeo. Per fare questo si firmano accordi, spesso segreti, come il Trattato di Amicizia e Cooperazione Italia-Libia firmato da Berlusconi e Gheddafi nell’agosto del 2008 e reiterato dal ministro dell’Interno Cancellieri il 3 aprile del 2012, scambiando favori nell’ambito dell’economia e della cooperazione internazionale sulla pelle dei migranti.
Quando li incontri nelle rotte del Sahel, i migranti si definiscono avventurieri.
Una volta in Europa, naturalmente quelli che sono riusciti ad arrivarci, sono chiamati clandestini.
E per loro un nuovo viaggio comincia, tormentato purtroppo da nuove tragedie.

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15