Sviluppo rurale integrato
Ancora oggi, quando penso ai territori della fascia africana conosciuta con il nome Sahel, penso a Enrico Augelli che, da giovane diplomatico, negli anni Ottanta, promosse un programma straordinario a favore di contadini e popolazioni dell’area.
Un programma che definisco straordinario, perché prevedeva uno sviluppo rurale integrale. A differenza di progetti che allora andavano per la maggiore ed erano sostenuti dal FMI (Fondo Monetario Internazionale), questo si proponeva di sostenere l’autonomia alimentare e gli interessi dei contadini anziché la produttività agricola finalizzata al mercato.
Augelli morì giovane. Ogni anno la Cgil della Farnesina ricorda la sua figura attraverso un premio di studio per ricerche sul tema della cooperazione nei Paesi in Via di Sviluppo. Nel periodo nel quale svolgevo l’incarico di viceministra per la cooperazione e l’Africa sub sahariana ebbi l’occasione di partecipare a uno di questi eventi e rimasi colpita, nel ricordo che ne facevano amici e compagni, dalla sua lungimiranza e al suo coraggio.
Con il programma integrale i contadini riuscirono a ottenere reali risultati e si rafforzò la capacità imprenditoriale e di accesso al credito.
Resta fondamentale, per ogni azione volta a dare sostegno alle popolazioni rurali, sfuggire alla morsa mercantilista e della competizione, per costruire, viceversa, salde competenze volte ad affrontare il grande tema della terra e del cibo, soprattutto in aree a rischio desertificazione come il Sahel.
Siccità e carestia
La principale causa dell’elevato rischio di desertificazione è la costante mancanza d’acqua, per cui la terra, completamente secca, erosa e mossa dal vento, si trasforma in sabbia. Ma anche le coltivazioni intensive hanno contribuito al fenomeno. Sono ricorrenti le crisi alimentari e molto ampio è il numero di malnutriti soprattutto tra le bambine e bambini. È possibile far fronte alla minaccia della desertificazione, ma occorrono molti mezzi finanziari e progetti di re-insediamento agricolo tradizionale.
Le donne sono sempre le prime a combattere su questo impervio terreno, ma sono le prime anche a essere colpite dall’erosione e dalla scarsa fertilità della terra. Quando un raccolto brucia per mancanza di acqua o quando si riducono le possibilità di allevare bestiame, si riduce il reddito familiare e le condizioni di vita delle donne peggiorano.
L’occupazione femminile nel settore agricolo è molto alta: quasi l’80% in tutti i Paesi dell’Africa sub sahariana. Le donne hanno sviluppato saperi per gestire le risorse naturali e sono protagoniste nelle campagne a difesa di sovranità e sicurezza alimentare.
Purtroppo in molti Paesi esse non possono vedere riconosciuto il titolo di proprietà della terra. Altresì sono prerogative maschili molte delle attività gestionali. Quando, poi, gli uomini emigrano, le donne restano come capofamiglia a sostenere tutto il peso dei carichi di cura e di impresa.
Il ruolo delle donne
Molti progetti anche della cooperazione italiana sono rivolti a garantire il loro ruolo nei processi decisionali e a implementare politiche di gestione di auto impresa. Tra gli altri segnalo, per la sua rilevanza, un progetto dell’IFad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo) nella regione del Matam, nel nord est del Senegal, rivolto a sostenere piccole fattorie a conduzione familiare favorendo pratiche innovative di preservazione delle risorse naturali, in particolare per l’acqua.
In condizioni ambientali dove la scarsità delle piogge e l’aridità del suolo diventano un impedimento concreto alla produzione agricola, diventa fondamentale imparare a minimizzare l’uso dell’acqua con l’irrigazione goccia a goccia.
La costruzione della diga di Manantali ha cambiato l’afflusso delle acque del fiume Senegal che, per secoli, avevano garantito irrigazione naturale alle colture dell’area, con ricadute inevitabili sulle condizioni di vita per interi nuclei familiari.
I mutamenti climatici che si sono accelerati negli ultimi anni hanno fatto il resto. Le piogge si sono ridotte esponendo sempre più persone a rischio alimentare.
Perciò progetti rivolti a conservare, proteggere l’equilibrio dei cicli naturali e contrastare la desertificazione sono indispensabili.
Non sempre, purtroppo, le risoluzioni prodotte dalla Convenzione per la lotta alla desertificazione (Unccd) vengono applicate. La Convenzione fu varata nel 1994, due anni dopo il vertice di Rio. Numerosi progetti sono stati rivolti prioritariamente ai Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Cooperazione italiana
In particolare l’Italia si è impegnata in Burkina Faso, Mali, Niger, Senegal, sostenendo progetti di costruzione di infrastrutture per il settore agricolo promuovendo attività con forme di microcredito e assistenza tecnica. L’aspetto più interessante e di maggiore efficacia si è raggiunto quando si è riusciti a coinvolgere attori locali, con partecipazione diretta alla gestione dei progetti.
Il prezzo più alto rispetto alla desertificazione viene pagato dall’Africa e in primo luogo dal Sahel dove la siccità ha prodotto negli ultimi 30 anni una costante emergenza umanitaria. Tra gli anni Settanta e Ottanta una carestia colpì 50 milioni di persone e causò oltre un milione di vittime.
Nel 1973 si costituì il Cills (Comité Permanente Inter Etats de lutte contre la Secheresse dans Sahel) per combattere gli effetti della siccità. Il Fondo Italia Cills ha finanziato più di 300 progetti in questi anni, toccando quasi un milione di beneficiari.
Ma da allora il processo di avanzamento del deserto non ha mai smesso, fino a coprire interi Paesi che furono importanti centri di cultura. In tutti i Paesi del Sahel, dove l’80% della popolazione vive di attività agricole, la desertificazione produce impoverimento crescente contribuendo allo spopolamento delle campagne contemporaneamente all’abnorme inurbamento di sempre più persone.
In tutta l’area le conseguenze della siccità sulla popolazione sono devastanti. La crisi alimentare ha colpito 18,7 milioni di persone nel 2012. A ciò si deve aggiungere quanto prodotto dal conflitto nel nord Mali e poi dall’intervento armato ancora in corso. Recenti stime delle organizzazioni internazionali parlano di 50 milioni di persone a rischio di sostentamento. Molte delle famiglie rurali più povere sono state costrette a disfarsi delle loro attività e a migrare nei territori vicini in cerca di pascoli per il bestiame, aggiungendo una nuova pressione alle risorse già scarse, creando tensioni crescenti con le popolazioni locali.
È in questa situazione che si inserisce l’opera dell’inviato speciale dell’Onu Romano Prodi. Il suo intervento si è rivolto particolarmente all’individuazione di una strategia che si concentri sugli abitanti della regione, per aiutarli a fare fronte alle cause alla base dell’instabilità, con una speciale enfasi sulle comunità più vulnerabili, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza alimentare e la capacità di adattamento delle comunità, ma anche di affrontare i problemi a lungo termine che colpiscono le popolazioni della regione.
I risultati, però, nonostante gli impegnativi e generosi sforzi della cooperazione internazionale, degli impegni degli organismi multilaterali e degli attori locali, o dell’opera dell’inviato speciale, non sembrano prodursi. Anche nei primi mesi del 2013 le cifre della crisi alimentare dimostrano una costante ascesa. E particolarmente preoccupanti sono le condizioni di malnutrizione dei minori.
In Mali, la guerra “francese” continua senza che la situazione si stabilizzi. Anzi. A me sembra che, creato un vulnus nel diritto internazionale, il Mali non riesca a trovare la strada per una sua propria sicurezza e coesione. La paura jihadista ha fatto da apripista a un intervento armato esterno, che fa velo a tutti i problemi economici sociali e politici che ribollivano nel Paese.
Chi si dichiara contro la guerra, come racconta spesso nei suoi interventi Aminata Traore, è tacciato di essere nemico del Mali, un apolide senza diritti di cittadinanza. La guerra semina odi e divisioni destinati a durare. E le popolazioni appartenenti alle fasce più fragili sono colpite per prime dai colpi della siccità, della fame e della guerra.
A me pare che il tema che si ripropone ancora una volta sia quello di una nuova e diversa politica da quelle delle armi e del dominio del mercato.
La siccità non è un destino ineluttabile. Alla radice ci sono le sciagurate scelte dell’attività umana volte prioritariamente al profitto, che modificano l’habitat naturale per l’accaparramento delle risorse energetiche e alimentari. I mutamenti del clima indicano un pericolo crescente per la sorte del Pianeta Terra forse oltre i livelli di non ritorno.
Responsabilità
Se pensiamo concretamente alle responsabilità globali, ci accorgiamo, infatti, che è l’Africa, ancora l’Africa, a pagare maggiormente e duramente gli effetti della globalizzazione liberista. In termini di inquinamento atmosferico, l’Africa è il continente che ha minori responsabilità con uno 0,1 tonnellate di CO2 a testa, mentre, ad esempio, in Etiopia le emissioni sono ben 200 volte inferiori a quelle degli Stati Uniti. Il fenomeno dei profughi climatici ha dimensioni imponenti.
Non basta più intervenire con soluzioni tampone o programmi micro (certamente sempre utili a fronteggiare un’emergenza!). Occorre un cambio di paradigma che guidi la politica interna ai singoli Paesi e quella globale affinché si collochi al centro la vita di tutti gli esseri viventi, umani e non umani, e l’intero cosmo in equilibrio con loro.
Occorre combattere la desertificazione con interventi coerenti alla preservazione dei beni comuni mettendo al bando la competizione dei mercati e della finanza. In questo contesto i beni comuni sono l’espressione più concreta per rigenerare una internazionalizzazione della cooperazione. Sono centrali se si vuole sconfiggere la globalizzazione che impoverisce ed emargina. Sono centrali se si vuole sconfiggere il dominio di pochi sui tanti.
Se l’acqua si fa merce, deperisce a risorsa da scambiare. Invece, è elemento fondamentale dei cicli naturali. Essa non è elemento scarso di per sé. Il ciclo della vita, se si rispettano le sue fasi , si riproduce incessantemente. Il ciclo si interrompe quando si crea un vulnus. E l’appropriazione, o la rapina per meglio dire, di elementi naturali per ottenere un beneficio per sé o per i pochi che se ne avvantaggiano apre la faglia della sostenibilità. Quello che i Paesi sviluppati hanno crea-to è un modello di sviluppo che apre faglie mettondo a rischio la vita.
Come dice Riccardo Petrella quando invita a far camminare la Campagna per dichiarare la povertà illegale, il soggetto di riferimento dei beni comuni mondiali è l’umanità. È proprio la coscienza di appartenere all’umanità che anima conflitti e resistenze. Che apre al cambiamento, che supera le difficoltà e ci rende liberi, cittadine e cittadini del mondo.
Un verso di un poeta persiano del XVII secolo, Saeb Tabrizi, recita: “Quando un uccello capisce di essere altro dalla gabbia, è già libero”.