Fra il Sahara e la savana

Il peso della storia e le responsabilità della politica nella regione del Sahel.
Giampaolo Calchi Novati (docente di Storia dell’Africa all’Università di Pavia e direttore dell’Osservatorio Africa dell’Ispi)

A Timbuctu, Gao e Dienné sono ancora visibili le tracce degli imperi che hanno fatto la storia dell’Africa nei secoli, prima della grande crisi che lo storico Joseph Ki-Zerbo colloca alla fine del XVI secolo. A uno di questi imperi si ispirò la classe dirigente attorno a Kwame Nkrumah che, al momento dell’indipendenza della Costa d’Oro (Gold Coast), decise di chiamare Ghana il nuovo Stato. Non ci sono coincidenze territoriali o discendenze sia pure indirette fra il Ghana fiorito fra il VII e l’XI secolo e il Ghana contemporaneo: fu una scelta essenzialmente ideale, per dare una profondità storica almeno virtuale agli Stati che stavano riprendendo vita dopo l’usurpazione coloniale. Non è così per il Mali: il Mali di oggi, noto come Sudan francese in epoca coloniale, occupa a grandi linee il medesimo spazio dell’impero costituito con questo nome da popolazioni di lingua malinke che dominò gran parte della regione fra il XIII e il XV secolo.

Sahel
Furono i rapporti con gli arabi a dare slancio agli Stati che si svilupparono immediatamente a sud del Sahara sfruttando l’ambiente propizio della savana, dove sono possibili l’agricoltura e agglomerati umani anche consistenti. Il maggiore incentivo di progresso era rappresentato dal commercio transahariano, che si basava soprattutto sul baratto fra il sale portato dagli arabi stanziati lungo il Mediterraneo e l’oro estratto più a sud in una zona mal definibile detta Walata. Il nome Sahel, con cui viene denominata anche oggi la fascia di passaggio fra il Sahara e la savana che taglia l’Africa da ovest a est, riprende il termine sahel, e più precisamente in arabo sahil, sponda, per indicare in questo caso la riva non di un mare o di un lago, ma del deserto. Di origine araba è anche la parola Sudan, che è ed è stato il nome proprio di Stati, ma che più in generale è un toponimo geografico con cui gli arabi indicavano la terra dei neri (sudan al-bilad). I centri più importanti ricordati sopra erano i terminali meridionali delle carovane che attraversavano il Sahara. Con i prodotti degli arabi arrivò l’islam, a cui si convertirono prima i sovrani e più avanti nel tempo, spesso a seguito di jihad con alla testa grandi facitori di imperi, le masse popolari. Gli Stati frutto della geopolitica coloniale e poi della decolonizzazione rispecchiano una realtà composita, di incontro e scontro fra il mondo arabo-musulmano e il mondo nero, con problemi molto impegnativi di governo e stabilità interna.

Frontiere coloniali
Partendo dalle rive del fiume Senegal, la Francia si propose di espandere il proprio impero africano verso il centro del continente e il Mar Rosso senza porsi limiti, salvo doversi inchinare alla superiorità militare della Gran Bretagna una volta raggiunta la regione nilotica a Fascioda. Per le caratteristiche del colonialismo francese le popolazioni nere del sud furono favorite. I musulmani insediati soprattutto nel nord si dimostrarono più impervi alla sottomissione politica e refrattari alla conversione religiosa. I “collaboratori” vennero promossi a interlocutori principali nella fase di transizione. Il modello di Stato trasmesso dal colonialismo si adattava di più alle comunità stabili, urbanizzate, mentre incontrava molti ostacoli nei sistemi di vita di nomadi e seminomadi. Il colonialismo è stato un marcatore di frontiere. Nella tradizione africana i confini sono una zona che unisce due realtà più che una linea divisoria. In particolare i berberi che hanno il loro habitat nel deserto, conosciuti nel linguaggio corrente come Tuareg, non sono abituati a rispettare i confini rigidi che, con il tempo, sono diventati i contenitori dell’Africa occidentale francese e poi delle nazioni indipendenti. Con i loro mezzi limitati, i nuovi Stati hanno faticato a controllare il territorio e a “pacificare” le popolazioni più lontane. Le zone periferiche, con un ambiente ostile, e una turbolenza sempre al limite della belligeranza a difesa della propria autonomia e di un’attività fra legalità e illegalità, non sono state mai veramente integrate. Le capitali di Mali, Niger e Ciad sono nel sud. I tre Stati si estendono poi a nord in enormi regioni aride o semiaride penetrando in profondità nel deserto, dove la sovranità è incerta e dove mancano anche i servizi sociali più elementari. Solo nel Ciad, al termine di una lunga contesa, che è stata di fatto una guerra civile, le élites arabeggianti hanno esautorato i gruppi neri a cui la Franca aveva ceduto il potere.

Il caso Sudan
Il caso del Sudan con capitale Khartum sta a sé: la Gran Bretagna, che l’amministrò in una specie di “condominio” con l’Egitto, ha di fatto privilegiato il blocco arabo e islamico con il centro a nord nella zona della confluenza fra Nilo bianco e Nilo azzurro. Le popolazioni del sud, animiste e in parte cristianizzate, hanno combattuto pressoché ininterrottamente per ottenere un riconoscimento dei loro diritti in uno Stato democratico e pluralista e, alla fine, per pretendere l’indipendenza. L’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, sancita da un accordo e senza ulteriori resistenze da parte di Khartum, ha scalfito il principio quasi sempre osservato di non sconvolgere la geografia dell’Africa indipendente. È reale il rischio di una corsa alla revisione delle frontiere anche in Africa? Già ai tempi dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua) il Sud Sudan, al pari dell’Eritrea, era stato giudicato un problema sui generis. La decolonizzazione – una pseudo-decolonizzazione almeno per quanto riguarda le colonie italiane nel Corno – non aveva dato soddisfazione alle spinte per un’auto-determinazione separatista, che il colonialismo aveva incoraggiato sia pure senza portare fino in fondo il processo. Nel clima della globalizzazione il tabù che ha retto quasi ovunque durante la guerra fredda non ha lo stesso valore. L’Unione africana (Ua), che ha sostituito l’Oua nel 2002 con l’intento di assecondare i diritti dei popoli più che la difesa conservativa degli Stati, potrebbe rivelarsi meno rigida nel penalizzare eventuali riassetti territoriali.

Il Mali
Il tentativo di proseguire nel Mali – a rovescio rispetto al Sudan – la resa dei conti fra “arabi” e “neri” è stato bloccato dall’intervento militare della Francia. Contro l’“indipendenza” dello Stato di Azawad, proclamato nel nord del Mali da una coalizione impropria e precaria, fra l’autonomismo dei Tuareg e l’estremismo dei jihadisti, approfittando della debolezza del governo di Bamako e dell’impotenza dell’esercito nazionale, si erano schierate sia l’organizzazione regionale dell’Africa occidentale (Ecowas), con il progetto di allestire una forza tutta africana, sia, con una maggiore propensione a percorrere le vie della mediazione prima di ricorrere alla guerra, l’Ua. È probabile che Hollande, sulla scia di Sarkozy, miri soprattutto a ristabilire l’influenza che la Francia aveva perduto o stava perdendo in Africa. Respinti i movimenti legati a Al-Qaida, resta da risolvere il problema più propriamente interno fra il separatismo delle comunità del nord e le ragioni dello Stato unitario. Le forze Tuareg si aspettano compensi adeguati per l’aiuto che hanno fornito al corpo di spedizione francese contro i loro alleati di ieri.
Sopra o sotto le cause “globali”, che rappresentano il fulcro dell’agenda delle grandi potenze o dei movimenti transnazionali, le crisi africane sono il riflesso di un complicato processo di costruzione dello Stato e della nazione. Sembrava che fosse stata raggiunta un’intesa sul principio enunciato dall’Ua di ricercare comunque soluzioni africane alle crisi africane. Dalla guerra in Libia in poi è emerso, invece, che l’Africa è trattata ancora come un oggetto. La regione sahelo-sudanese, con un’eredità storica di pluralità da gestire in una prospettiva in grado di conciliare l’integrazione con le specificità dei luoghi e delle genti, è diventata una specie di limes fra i due campi, mal definiti ma incombenti con tutta la violenza di cui sono capaci, che si confrontano nella war on terror indetta da Bush nel 2001 e proseguita con metodi non tanto diversi da Obama. A furia di vaticinare che la Somalia o il Mali sono il “nuovo Afghanistan”, si evocano fattispecie che riproducono e perpetuano la tensione che si vorrebbe sedare. La guerra gestita da forze esterne – tanto più in un ambiente ecologicamente fragilissimo, un melting pot di identità e aspirazioni dove abusi e soprusi tendono ad annullare i diritti – non è propriamente il modo migliore di rispondere alla domanda di libertà e giustizia che ha già animato le Primavere arabe nel Nord Africa.

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