La forza propulsiva della speranza
S come Speranza e come Storia. Se preferite, come speranza insita nella storia e come speranza di portare a compimento la storia stessa. Pertanto, cari amici, la speranza non come la si intende comunemente: ultima a morire. Né come pura sopravvivenza. Piuttosto come surplus di energia e vera eccedenza della storia, perché avanza con essa e anzi la spinge in avanti. Da riscoprire come sua coinquilina e come sua Antriebskraft, cioè come sua forza propulsiva. Mi balenano immediatamente nella mente le frasi lette oltre 30 anni fa, al tempo dei miei studi all’estero, su alcuni muri delle università, da dove sono usciti coloro che oggi, da noi come in Germania, portano avanti questa nostra storia, diventata faticosa: storia odierna di rigore e di disoccupazione, di vincoli e di impegni comunitari, ma così poco abitata dalla speranza. Ne cito solo due, che danno il senso di ciò che incubava tra quelle mura e quelle menti giovanili, pur sempre in fase di progettazione creatrice. La prima frase era di un’ironia sottile e sovversiva. Protestava contro la cementificazione avanzante nelle metropoli, come sulle nostre itale coste, nelle periferie, come negli atenei. Su uno dei nuovi edifici universitari, sorti in pochi anni e in una periferia, lontano dal centro storico, dove c’è pur sempre la bella università tradizionale di Würzburg, si leggeva: «Küss den Beton sanft!», che letteralmente significa «bacia il cemento con dolcezza!». Come a dire: mi raccomando, potrebbe farsi male. O, forse, meglio: potresti farti male. A farsi male era in realtà il cuore e, tra mura squadrate e geometricamente predisposte, anche l’esprit de géométrie protestava, sebbene con dolcezza, congiungendosi, miracolosamente, all’esprit de finesse.
Sono passati trent’anni. La dichiarazione solenne sull’Unione Europea (Dichiarazione di Stoccarda) fu infatti adottata dai 10 Capi di Stato e di Governo, che ne facevano parte, nel Consiglio europeo del 17-19 giugno 1983, mentre 10 anni dopo entrava in vigore il Trattato di Maastricht, con le sue norme politiche e i parametri economici per l’ingresso nell’Unione Europea stessa (1º novembre 1993). Nel frattempo il Beton, il cemento, non sempre è diventato bon ton, cioè insieme di regole per vivere al meglio la nostra vita sociale e comunitaria. Il cemento che questa volta affiora nella mia mente è quello delle grandi banche, europee e non. Ma quando mai le grandi banche hanno avuto nazionalità o regole? Hanno tutte una sola e unica bandiera: il profitto. Il loro incedere sui destini delle nazioni e dei popoli sembra l’avanzare di un panzer, che tutto vuol livellare e tutto vuol far quadrare… Invoco comprensione: non ho nulla contro l’Unione Europea e la mia stessa biografia, senza di essa, sarebbe stata decisamente un’altra. Ho le mie osservazioni, e anche abbastanza circostanziate, per dire che, nell’abbraccio tra il cemento di norme rigide e indiscriminate e la fragilità di economie più deboli e precarie, non le labbra, ma la propria storia, quella della propria nazione e della propria vita, rischia di essere stritolata. Credo siamo dinanzi a una svolta: o si cambia o fallisce l’intero pur sempre valido progetto dell’Unione Europea, al quale io sono tra quelli che, nonostante tutto, si ostinano ancora a credere.
Ma credere significa avere speranza e speranza significa ancora intravedere il futuro. Ma ecco qui la seconda frase che ricordo. La ricorderanno molti altri, che l’hanno letta su buona parte delle piazze, oltre che delle università europee di allora. Questa volta in una lingua più diffusa e comprensibile: «No future!». Nessun futuro, keine Zukunft, traducevano mani zelanti, per rincarare la dose.
Quale pace?
Siamo arrivati a tanto? – vi chiederete sgomenti. In realtà alcuni c’erano arrivati già allora, quando, come dice il sempre interessante e valido Raniero La Valle, le tre grandi rivoluzioni, accese intorno alla metà del secolo scorso, vennero interrotte, appena alcuni decenni dopo. Sono la Costituzione, il Concilio e il Sessantotto (cf. R. La Valle, Quel nostro Novecento. Costituzione, Concilio e Sessantotto: le tre rivoluzioni interrotte, ed. Adriano Salani Editore, Milano 2011).
Si può discutere quanto si vuole sugli eventi più importanti del Novecento e sul loro influsso sulla situazione attuale, in cui il futuro sembra di nuovo essere stato messo in crisi. La realtà è che il respiro del futuro e il palpito della speranza marciano insieme. La pace è legata a filo doppio con entrambi, perché è quella che, per i credenti nel Risorto, proviene e promana dalla stessa Risurrezione di Gesù che, appunto la sera di Pasqua, affida ai “suoi” un messaggio e una missione: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” (Gv 20,21). È la conferma di quella promessa che, in precedenza, l’imminente inizio della sua passione non gli aveva impedito di pronunciare: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27). Che cosa può turbare il cuore se non l’incertezza del futuro o peggio, una sovrastante e apparentemente insuperabile minaccia che esso porta con sé?
Ebbene, proprio ora è tempo di capire che, se la pace del futuro non è come quella che dà il mondo, con i suoi palazzi di cemento e i suoi euro-forzieri blindati, un’altra pace è possibile, perché un altro modo di essere e di vivere è possibile. Non si tratta più di baciare dolcemente il cemento, ma di riprendere a percorrere il sentiero della creatività sobria e della fantasia solidale. Occorre contare sull’unico futuro possibile a disposizione dei più poveri: quello di rapporti veri e di abbracci autentici. Dolci di uguaglianza e di condivisione. Il futuro diviene di nuovo possibile nella misura in cui facciamo rivivere la rivoluzione di un mondo diverso da ri-costruire, più che su basi nuove, riprendendo le rivoluzioni interrotte. Sono: 1) un diritto che difenda davvero tutti, compresi i reclusi in nome delle sue leggi; 2) una fede che è avventura e sapore d’Eterno e di Vero in un mondo che mostra sempre più futilità, precarietà e stanchezza; 3) una libertà per tutti e non semplicemente a disposizione di chi può correre di più, investire, e, per questo, anche trasgredire di più. Sono la riviviscenza delle tre interrotte rivoluzioni che portano alla pace, perché non si tratta di lasciare alle nuove generazioni “degli altarini alla Costituzione, al Concilio e alla contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando una vecchia parola, potremmo dirlo così; queste sono le tre cose che rimangono: il diritto, la fede, la libertà; ma di tutte più grande è l’amore” (R. La Valle). L’amore, appunto, che porta alla pace ed è rigenerato dalla pace.