Dopo Cancun Brevetti o pazienti?
Si muove forse qualcosa, e nella giusta direzione, all’indomani del colossale fallimento della Conferenza interministeriale del WTO a Cancun. Stiamo scrivendo mentre rimbalza la notizia che il Canada ha annunciato la decisione di introdurre una nuova legislazione in materia di medicinali, con l’obiettivo di promuovere la produzione di farmaci antiretrovirali contro l’Aids in versione generica da esportare nei Paesi poveri colpiti da questo drammatico problema sociale e sanitario. Il Canada ha una solidissima industria farmaceutica di generici, riconosciuta a livello mondiale, e le maggiori aziende, come la Apotex, hanno dichiarato di essere già pronte ad assicurare, a prezzo di fabbricazione, le terapie che cronicizzano l’Aids riducendone drasticamente la mortalità ai Paesi che ne abbiano bisogno.
Le licenze obbligatorie
La decisione canadese, subito criticata duramente dal presidente della Federazione Internazionale delle Associazioni di Farmindustria, Harvey Bale, il quale intravede in questa mossa una minaccia al regime di monopolio che regola i brevetti sui farmaci secondo le regole dall’Accordo Trips (Accordo sugli Aspetti della Proprietà Intellettuale Inerenti al Commercio), interpreta con grande flessibilità l’accordo sulle licenze obbligatorie all’esportazione di farmaci ai Paesi in via di sviluppo firmato, dopo un tiro alla fune negoziale durato due anni, alla vigilia del vertice di Cancun. L’annuncio è una sollecita e pertinente risposta alle dichiarazioni senza fronzoli del Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’ONU per l’Aids, il canadese Stephen Lewis, il quale, aprendo i lavori dell’Assemblea Generale dell’ONU dedicata all’epidemia, ha definito una “grottesca oscenità” il fatto che la comunità internazionale spenda 600 volte di più per la difesa e 350 volte di più nei sussidi all’agricoltura di quanto non investa nella lotta contro questa pandemia in Africa. Intanto, a fronte dell’obiettivo di assicurare le terapie a tre milioni di sieropositivi entro il 2005 fissato il mese scorso da una determinata OMS, la verità è che nell’Africa subsahariana, oggi, solo 50.000 pazienti ricevono i medicinali, ovvero uno scarso 1% fra quelli che ne avrebbero diritto immediato.
La mossa canadese ha una duplice, strategica valenza. In primo luogo, serve ad aumentare drasticamente la produzione di farmaci antiAids nel mondo; allo stato attuale, non è affatto detto che la capacità produttiva combinata di Paesi come India, Brasile, Cina e Tailandia possa rispondere ai bisogni dei pazienti, anche laddove ci fosse un incremento dell’immissione di medicinali. Inoltre, il Canada può utilmente battere la pista e incoraggiare i Paesi in via di sviluppo membri del WTO a usare la bussola delle licenze obbligatorie per aprire la via a un serio e massiccio investimento sulla produzione di medicinali.
Il Canada è meno vulnerabile rispetto alle pressioni delle case farmaceutiche di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, e ha sufficiente forza contrattuale per resistere alle interferenze dell’amministrazione americana. Chissà che questo percorso non possa far scuola anche presso i Paesi meno avanzati. Ciò potrebbe risollevare le sorti del negoziato su proprietà intellettuale e salute pubblica, condotto in cattiva fede dai Paesi produttori di medicinali, e sacrificato con fretta controversa sugli altari della conferenza di Cancun e degli altri dossier scottanti sul tavolo del WTO, in particolare la questione agricoltura.
Una battaglia decisiva
Al vertice ministeriale di Doha nel novembre 2001 i governi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio adottarono la famosa “Dichiarazione di Doha su Trips e Salute Pubblica” che, senza mettere in discussione la difesa della proprietà intellettuale, vincola i membri del Wto a una interpretazione flessibile e più umana dell’accordo sui brevetti, in grado di tener conto della insostenibile realtà di molti Paesi a basso reddito, ad alta, altissima mortalità.
La Dichiarazione, oltre a esplicitare la protezione della salute pubblica, enfatizza con parole energiche il fattore della promozione dell’accesso alle cure per tutti. Infine, estende di dieci anni (fino al 2016) il tempo concesso ai Paesi meno avanzati per adeguarsi alle clausole dell’accordo. Una pagina fondamentale della delicata battaglia che mira a interrompere l’in giustizia del mancato accesso alle terapie, finalmente alla ribalta della stampa internazionale grazie alla straordinaria mobilitazione degli attivisti sieropositivi sudafricani impegnati prima contro le 39 case farmaceutiche titolari di un’azione legale contro il governo di Pretoria sulle regole per l’accesso ai medicinali, poi contro Thabo Mbeki che ancora oggi fa infuriare la società civile del Sudafrica negando l’esistenza dell’Aids in un Paese dove 5 milioni di persone (su 45 milioni) sono sieropositive.
Ma l’impegno che sembrava nel 2001 l’avvento di una nuova era del commercio internazionale, più giusto verso i poveri, è miseramente deragliato sulle modalità di attuazione, soprattutto in relazione al paragrafo 6 della Dichiarazione che riguarda le regole di approvvigionamento di medicinali per i Paesi senza capacità produttiva, e i vincoli all’esportazione. Infatti, quando un Paese decide di imporre una licenza obbligatoria su un brevetto, ovvero si riserva di utilizzare l’invenzione per ragioni di interesse pubblico senza l’autorizzazione dei titolare del brevetto stesso, è sottinteso che la copia del medicinale realizzata dai produttori locali a regime di eccezione debba essere destinata essenzialmente al mercato interno.
Ma se tutti i Paesi potenziali produttori si vedono proibire l’esportazione, come può far valere i propri diritti, e le proprie necessità sanitarie, un Paese che non dispone di un’industria locale? Una soluzione ragionevole per non prolungare l’apartheid sanitario sarebbe quella di autorizzare l’esportazione della copia generica del farmaco a tutti i Paesi che intendono far prevalere il diritto alla salute sul rispetto assoluto dei brevetti. Secondo James Love di Consumer Project on Technology, così si metterebbero concretamente a disposizione, e al minor costo, medicinali in grado di alleviare le sofferenze ed evitare la morte di milioni di persone. Il problema, secondo i potenti difensori dei brevetti, è il pericolo che si apra una voragine nel regime di proprietà intellettuale che così tanti soldi frutta alle multinazionali del farmaco.
Chi serve il Wto?
Insomma, patents versus patients. Il vecchio dilemma: brevetti o pazienti. Priorità del profitto o del diritto, che l’accordo sui farmaci siglato il 30 agosto scorso con grande fanfara e roboante retorica – un accordo storico, lo ha definito il direttore generale del WTO Supachai Panitchpakdi, a dimostrare la grande capacità del WTO di ottenere soluzioni di profondo impatto umanitario – ha risolto scegliendo un sistema rigido pieno di restrizioni e di ostacoli tecnicoburocratici. I Paesi che vogliano avvalersi delle licenze obbligatorie per l’approvvigionamento di generici potranno farlo secondo la clausola, tanto vaga quanto pericolosa, dell’uso umanitario. Pesanti vincoli sono state imposti ai produttori e fornitori di generici, perché modifichino le confezioni esportate in modo che non possano essere re-importate. Inoltre, un meccanismo di verifica dovrà controllare l’uso del sistema e la re-importazione dei generici nei mercati ricchi, un ulteriore aggravio burocratico. L’effetto desiderato, complessivamente, è quello di scoraggiare i governi dall’impelagarsi in una procedura tanto contenziosa politicamente e impraticabile dal punto di vista tecnico.
Quali interesse serve l’Organizzazione Mondiale del Commercio?, si chiedeva la prestigiosa rivista Lancet nel gennaio 2003. Il sistema brevettale, nella sua attuazione almeno, riproduce la peggiore legge della giungla e fomenta un regime asimmetrico, del tutto sbilanciato a favore del più forte. Disegna il diritto universale, permanente e inalienabile della salute come un’eccezione al diritto temporaneo e revocabile della proprietà intellettuale. Staremo a vedere se la mossa del Canada, nel momento in cui il WTO vive la fase di massima crisi, non possa superare la diga di protezione delle multinazionali farmaceutiche e smuovere le acque della prassi e della politica sull’accesso ai farmaci, nella prospettiva di accendere il dibattito su possibili alternative ai brevetti – ciò che darebbe nuovo stimolo all’innovazione nel settore farmaceutico – e ridefinire il ruolo prioritario dei governi e della ricerca pubblica. La salute, i farmaci nella fattispecie, devono essere trattati come un bene pubblico. Spetta alla società civile un ruolo di stimolo e di spinta affinché questo elementare principio venga riconosciuto e sancito giuridicamente, oltre gli slogan, con un investimento di lungo periodo. Non si tratta di una battaglia semplice, date le forze in campo.