RICONCILIAZIONE

La lunga strada del perdono

Abbiamo intervistato Elena Parasiliti, per rileggere insieme storie di vittime e di colpevoli che si sono posti, insieme, sulla strada della riconciliazione. Del perdono. Strada necessaria per ricostruire un popolo nuovo.
Intervista a cura di Giulia Ceccutti

Storie di vittime e storie di colpevoli che hanno scelto di intraprendere una strada di perdono e riconciliazione. Le racconta Elena Parasiliti, a lungo direttore del giornale di strada Terre di mezzo, in Ti chiamo per nome. Storie di riconciliazioni possibili. Mentre allatta il piccolo Tommaso, Elena mi spiega come, proprio nell’arco dei mesi della gravidanza, si è presa cura di tutti questi vissuti. E precisa: “Se non fossi stata in attesa di Tommaso, non avrei capito i tempi”. Si riferisce ai tempi lunghi richiesti da tutte le persone intervistate per decidersi ad aprirle quello che lei chiama “un cassetto di sofferenza”. Ascoltare tutte queste storie vale la pena. 

Come è nato questo libro?

È nato con un altro titolo. La sollecitazione iniziale, infatti, era quella di raccogliere storie di perdono in cui le vittime perdonavano gli autori del reato che avevano subìto loro, o i loro familiari. Il progetto doveva quindi incentrarsi sull’“Io ti perdono”, un po’ quello che sentiamo chiedere “a caldo” dai giornalisti alle vittime dopo che hanno subìto un atto criminale: “Ma lei perdona gli assassini di...?”. Ma trovandomi a lavorare su questo tema mi sono resa conto che era difficile poter dire “Ti perdono” in una volta sola, difficile soprattutto far continuare e sostenere questo perdono nel tempo. Quello che dunque sono andata a scoprire in questi mesi sono state storie di persone – sia vittime che autori di reati – che hanno scelto di intraprendere un percorso di perdono

Ho incontrato, perciò, anche detenuti che hanno deciso di affrontare quanto fatto e prima di tutto perdonare se stessi, e poi, con l’aiuto di luoghi o di persone che questo fanno di mestiere, di fare pace. Fare pace con le vittime, con se stessi, con la società. È questo anche il senso della giustizia riparativa.

Che cos’è la giustizia riparativa e quanto è diffusa in Italia?

È un modello di giustizia che è stato ripreso da situazioni americane e canadesi, ed è interessante perché nasce all’interno di Chiese protestanti. Nella giustizia riparativa ci sono una vittima, un colpevole, e c’è la società. Tra questi, un tessuto di relazioni composto da fili che, di fronte a un atto criminale, devono essere ogni volta ricuciti. In Italia la giustizia riparativa non è molto diffusa. Ci sono state alcune sperimentazioni negli anni Novanta, poi tra il 2000 e il 2004 un monitoraggio da parte del ministero di Grazia e Giustizia, che ha cercato di valutare i casi in cui si potesse applicare questo modello. Dal 2004 però si è un po’ arenato come modello da utilizzare con gli adulti. Continua invece ad essere applicato con adolescenti e minorenni. Ciò che non viene fatto a livello istituzionale in termini di giustizia riparativa viene, però, svolto da alcune comunità e realtà. Sono belle e buone eccezioni che fanno sperare: penso al carcere di Padova, dove non solo i ragazzi delle scuole entrano in carcere, ma anche il carcere entra nelle classi, oppure ai Circoli di responsabilità e sostegno, che a Milano accompagnano ex detenuti per reati sessuali a rientrare nella società in maniera diversa.

Scrivi che queste sono “storie in cui vittime e colpevoli si sono incontrati e in qualche modo riconosciuti”. Che cosa significa?

Per rispondere parto dal titolo: “Ti chiamo per nome”. Quando mi sono trovata con la prima delle persone intervistate, Paola Reggiani, nel suo ufficio all’interno della Chiesa valdese a Firenze, la cosa che mi ha colpito di più è stata che chiamasse per nome l’assassino di sua sorella. Io pensavo invece che non l’avrebbe nemmeno nominato. Avrebbe potuto utilizzare tante parole, da “bastardo” a “l’assassino”, e inchiodarlo a quell’odio lì. Invece lei normalmente, parlandone, così come chiamava per nome sua sorella, dicendo “Giovanna”, allo stesso modo chiamava per nome l’assassino di sua sorella. 

E questo per me è stata la prima avvisaglia che c’era stato in lei un cambiamento. Un cambiamento non così comune ma possibile: lo stesso che è avvenuto agli altri protagonisti di queste storie, da Giovanni Bachelet (figlio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ucciso dalle Brigate Rosse il 12 febbraio 1980), a Carolina Porcaro, madre cui è stato ucciso il figlio diciottenne. Tante persone diverse chiamavano per nome l’assassino del loro familiare. Chiamare per nome un altro vuol dire riconoscerlo come persona. 

Riconoscere un’umanità: un’umanità sofferente, fragile, che commette errori, che si porta dietro le conseguenze dei propri errori. Ricordiamoci, infatti, che parliamo sempre di persone che sono state poi condannate, che hanno scontato o stanno scontando la loro pena. Non stiamo, quindi, parlando di persone che hanno perdonato dichiarando “La giustizia non esiste”: quella giustizia c’è, ma non elimina il fatto che io possa riconoscere l’altro come uomo. Un altro passaggio da sottolineare è il fatto che nessuna di queste persone ha considerato la vita del proprio familiare quantificabile in numeri di anni di condanna, e il loro capire che gli anni di condanna devono in qualche modo servire a far sì che l’altro compia davvero un cammino di consapevolezza.

C’è una storia che consideri particolarmente significativa?

Ritengo molto bella la storia di Carolina Porcaro, una mamma che due anni fa ha perso il figlio Lorenzo di diciotto anni, ucciso da un coetaneo e morto dissanguato per una lite banale. Era estate quando sono stata a trovarla in Brianza. 

Mi ha colpito entrare nell’intimità della sua casa, con le foto di questo ragazzo appese dappertutto, persino in bagno. Un ragazzo bello, sorridente... Carolina mi ha portato in giardino e mi ha mostrato la piscina. Una piscina montata dove prima c’era l’orto di Lorenzo. Questa mamma, con intorno quel giorno una calura pazzesca, mi ha detto: “Io il bagno l’anno scorso non l’ho fatto, nemmeno quest’anno lo farò, perché fa troppo male fare il bagno dentro quella piscina”. Mi ha colpito tutto questo, e sapere però dall’altra parte che questa donna ha percorso un cammino, durante il quale ha voluto incontrare i genitori di Luis, il ragazzino originario dell’Ecuador che ha ucciso suo figlio, e ha chiesto di incontrare anche lui. Lui non riesce a incontrarla, perché non è pronto ad accogliere un perdono. 

Ed è interessante perché il perdono non solo si dà ma occorre anche che qualcuno lo accolga. È bella questa storia, perché Carolina Porcaro il giorno del funerale aveva invitato i coetanei di suo figlio a ricordare Lorenzo e a non invocare vendetta, a non odiare, e quel gesto è qualcosa che, dopo due anni, ancora continua.

Perdono e riconciliazione: qual è la differenza?

L’Università del perdono (www.universitadelperdono.org) sostiene che il perdono è un primo passaggio ed è qualcosa di individuale. Perdonare è un po’ come dire a se stessi: “Faccio in modo che quel fatto che mi è accaduto – pur brutto, pur violento, pur determinante per quel che io sono adesso – non condizioni più la mia vita”. Riconciliarsi invece vuol dire “Mi faccio carico di te, del male che mi hai fatto, e provo a ricostruire un legame”. Quindi, è qualcosa che entra ancora di più nella vita di una persona. Queste storie insegnano che la riconciliazione non è chiesta a tutti, non si può pretendere e può avvenire in tanti modi diversi.

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