Quelli che... dall'OPG escono

A colloquio con padre Giuseppe Insana, cappellano dell’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto.
A cura di Diego Cipriani

A Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, non c’è solo uno dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari ancora aperti in Italia. In via Garibaldi c’è una concreta alternativa all’OPG: la CaSA (Casa di solidarietà e accoglienza). Padre Pippo Insana, cappellano dell’OPG, che insieme all’associazione di volontariato da lui fondata nel 1986 gestisce questa realtà, afferma che la creazione di questa casa di accoglienza “è avvenuta per una coerenza sia cristiana che umana”. 

“Essendo uomo e cristiano”, continua, “dovevo agire affinché la dignità di queste persone fosse rispettata,  dovevo ribellarmi a quello stato di cose”, riferendosi alle condizioni in cui vivevano e vivono gli internati. Coglie ogni occasione per descrivere l’insostenibilità dell’OPG “che resta ancora oggi un carcere e non un luogo di cura, in cui mancano farmaci, cure adeguate, personale sanitario necessario, i luoghi sono inadatti e troppo spesso insufficienti. Non sussistono interventi specifici per alcolizzati, tossicodipendenti o chi vive un’insufficienza mentale. In assenza di spazi e di attività riabilitative o socializzanti, la giornata trascorre nell’abbandono totale non migliorando certamente la salute degli internati”. 

Solitudini 

Padre Pippo ricorda come, divenuto cappellano dell’OPG nel 1984, “prendendo un po’ sul serio la Parola di Dio, mi sono messo accanto, li ho ascoltati, ho condiviso il loro disagio, il loro abbandono, la loro solitudine, ho scelto di stare accanto a loro”. Con il permesso del magistrato, alcuni internati andavano a trascorrere i giorni di licenza a casa sua, anche alcuni dimessi vivono questa esperienza prima di inserirsi definitivamente nel territorio; alcuni amici lo aiutano in questa esperienza, altri si aggiungono e così nasce l’associazione di volontariato che si impegna  prima all’interno dello stesso OPG con attività ricreative, sportive, teatrali, cene e successivamente ospitando nella casa di accoglienza, nel frattempo realizzata, licenze d’esperimento, licenze finali, organizzando gite, vacanze, opportunità di lavoro tramite laboratori, condividendo il pranzo con chi lavora tutto il giorno presso cooperative del territorio e la sera rientra in OPG.

“Diverse centinaia le persone che in questi anni hanno vissuto nella casa per diversi mesi o anni”, racconta padre Pippo, “fino al momento in cui era possibile accompagnarli, e non solo in senso figurato, ma facendo insieme il viaggio, nel proprio territorio”. “A volte tornano dalle loro famiglie, a volte queste non ci sono più o non sono pronte ad accoglierli, ma il lavoro, troppo spesso lungo e faticoso”, continua con amarezza trasformata in energia, ”fatto con i Dipartimenti di Salute Mentale di residenza, permette inserimenti in comunità terapeutiche, o gruppi-appartamento o alloggi che si autogestiscono, ma con alle spalle un progetto terapeutico personalizzato definito e avviato”.

Diverse migliaia, invece, quelli passati dalla Casa con licenze d’esperimento determinate dalla magistratura, per verificare la possibilità di prevedere un luogo differente dove vivere: “l’associazione accoglie persone, qualunque sia il reato commesso, in un ambiente libero, in un clima di  famiglia nel contesto cittadino permettendo agli ospiti di vivere la propria giornata nella più semplice normalità”.

Fin dall’inizio dell’attività tutto è stato svolto in collegamento con il Dipartimento di Salute Mentale del territorio, con la Direzione dell’O.P.G., con gli uffici periferici del Ministero della Giustizia, con il Comune, senza dimenticare che, essendo un’associazione collegata con la Caritas diocesana, da sempre esiste un rapporto con le comunità ecclesiali coinvolte di volta in volta o in momenti di riflessione, di testimonianza o concretamente in eventi di sensibilizzazione della città o attività con gli internati. “Sempre impegnati a sensibilizzare il territorio, a gridare con forza che l’OPG è disumano, non rispetta la dignità delle persone e dicendo con i fatti che l’OPG si può e si deve superare”. Tuttavia “non sono mancati i fallimenti, le fatiche: all’inizio il pregiudizio era ovviamente molto presente; si è lavorato molto anche per farsi conoscere, per far capire che si può convivere con queste persone, che sono semplicemente delle persone colpite da una malattia che, come ogni altra, va riconosciuta, affrontata, curata, e se questo fosse avvenuto forse quelle persone non avrebbero compiuto alcun reato”.

Persone

Padre Pippo appare risoluto nel richiamare l’attenzione sulle strutture sanitarie pubbliche, che devono essere messe in condizione di occuparsi delle persone che soffrono di una malattia mentale: “Occuparsi di coloro che sono internati, predisponendo per loro progetti terapeutici individualizzati, strumenti indispensabili per realizzare un percorso di fuoriuscita dall’OPG e reinserimento nella società, e occuparsi anche di chi vive nel proprio territorio per prevenire gesti che, se curati, avrebbero potuto evitare anni di sofferenza ad alcuni internati”.

In ogni incontro padre Pippo non si stanca di ripetere che “sono persone, che hanno una propria dignità che va rispettata al di là di ogni complessità che la vita offre a ciascuno, con la consapevolezza che è possibile per tutti impegnarsi per offrire una vita migliore”. E ci racconta la storia di A.P., un giovane con una vita difficile, con un grave disturbo psichico che, fin da bambino, presenta dei comportamenti che la madre definisce anomali, aggressivi; peggiora la sua condizione psichica con il passare degli anni, fa uso di stupefacenti, subisce dei Trattamenti Sanitari Obbligatori, vive dei periodi di detenzione, scappa dalla comunità in cui è stato inserito, manifesta più volte la sua aggressività nei confronti dei familiari o dei vicini, lentamente le relazioni sociali si deteriorano, rifiuta le terapie, cambiano le frequentazioni, le relazioni familiari diventano impossibili, finisce in OPG e successivamente nella CaSA. In quei mesi il giovane, che già in OPG aveva iniziato ad assumere volontariamente la terapia, ha modo di creare buoni rapporti con gli altri ospiti, con i volontari, con il territorio, si sperimenta nuovamente con il lavoro dei campi appreso in precedenza nella fattoria di famiglia; con l’intermediazione della CaSA riallaccia buoni rapporti con la madre che, dopo alcuni mesi, chiede di trasferirlo in una struttura a lei più vicina, si ottiene un progetto terapeutico riabilitativo dal Centro di Salute Mentale per lui competente, è quindi accompagnato in una comunità più vicina alla sua fattoria dove, dopo pochi mesi, torna, lavorando e vivendo con la sua ex compagna da cui successivamente ha una bambina. “Di tanto in tanto telefona alla CaSA per comunicare che sta bene e che lavora”.

Sono storie come questa che inducono a dire “anche tu puoi stare meglio” a M.L., un giovane che ha alle spalle una vita da senza dimora, senza alcun riferimento: dopo aver vissuto il fallimento di un’adozione, l’infanzia e l’adolescenza passata in istituti, tante notti passate nei vagoni dei treni fuori uso, assumendo droga e alcool, finisce in OPG, proveniente dal carcere, per aver rotto un vetro di un pullman e quindi litigato con i carabinieri. Dopo aver subito diverse “proroghe”, arriva alla CaSA in licenza finale dopo aver usufruito di diverse licenze propedeutiche. Alla CaSA ritrova un luogo accogliente, recupera la capacità di prendersi cura di sé, rispetta regole e ambienti, si impegna per ricostruire una vita che fino ad allora gli ha negato affetti e famiglia, si riavviano le pratiche per ottenere la pensione, e si costruisce lentamente una vita che potrà essere migliore. “La speranza” conclude padre Pippo “è che la comunità saprà farsi perdonare anche da questo giovane, offrendogli una vita dignitosa e rispettosa del suo essere persona”. 

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