Deficit di umanità
La percentuale di persone con malattie mentali è in crescita, circa l’11-12% della popolazione mondiale. Si ritiene che ogni anno più del 27% degli adulti sperimenti forme di disagio mentale in Europa. Le forme depressive e la schizofrenia sono le più diffuse malattie mentali e per il 2020 ci si aspetta che la depressione occupi la posizione più alta fra le cause di malessere nel mondo occidentale.
Comunità e salute
I filoni di pensiero delle discipline psicologiche e psichiatriche, perfino quelli che si concentrano sulle cause biologiche e genetiche delle malattie mentali, non possono fare a meno di riconoscere che tutte le vulnerabilità psichiche aumentano a misura del progressivo sgretolamento delle forme comunitarie di convivenza, dei conflitti tra bisogni di sicurezza e di libertà, della perdita di senso, delle difficoltà legate al lavoro e alla sua assenza, del cambiamento dei modelli culturali di genere. Basti pensare alle recenti dipendenze patologiche non legate all’uso di sostanze, ai suicidi dovuti alla perdita del posto di lavoro o al fallimento di un impresa, alle forme di stalking.
Tutti fenomeni non sempre inquadrabili in quadri nosologici ufficiali, ma che pervengono ai servizi di psichiatria, attraverso i diretti interessati, i familiari o altre persone vittime di complessi sistemi di sofferenza e di disagio.
Sempre più le storie psichiatriche si intrecciano con storie giudiziarie. Le carceri approntano sezioni per i detenuti che manifestano sofferenze psichiche al primo esordio o che, in forma latente, erano presenti prima della condanna.
Il paradosso degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la loro assoluta incapacità di curare, denunciata perfino dal Presidente della Repubblica, dopo coraggiose Campagne da parte degli operatori e di alcuni politici più sensibili, si inserisce nel quadro di una contraddizione sociale che potrebbe essere giunta a un punto di svolta.
Che la società abbia molto a che vedere con il disagio psichico non era allora una strana idea di Franco Basaglia e dei sostenitori della legge 180. Le leggi possono supportare cambiamenti culturali.
Ma la chiave del problema sta in un forte deficit di comunità. Non è un caso che Piani sanitari nazionali e regionali, parlando di malattie mentali usino la parola comunità, fino a definire approcci disciplinari (“Psichiatria di comunità”, “Salute Mentale di Comunità”) o forme di intervento che superino quello specialistico dei servizi, fino a parlare di “presa in carico comunitaria”, termine che indica la concertazione di soggetti pubblici, privati, familiari e del terzo settore per formulare i piani terapeutici.
La salute ha bisogno di comunità
Il sociologo Bauman parla della comunità come di un luogo caldo, dove ci si sente accolti, dove non si ha paura di essere giudicati, dove si può litigare, ma dove generalmente si rifà la pace. Dove nessuno chiederà ricompense per dare soccorso in caso di necessità, dove l’aiuto e la solidarietà non sono imposti.
Egli, a ragione, afferma che la comunità incarna il tipo di mondo nel quale desidereremmo vivere, ma che purtroppo non possiamo avere, come in un eterno supplizio di Tantalo.
Se la comunità coincidesse con quella prima descritta, sarebbe qualcosa di inevitabile, di cui non si potrebbe parlare… come i pesci non saprebbero descrivere l’acqua se gli dessimo la parola. Figurarsi se essa possa svilupparsi con delle leggi.
All’interno di questo desiderio del tutto mai esaudito, ma oggi patologicamente inesaudito, si gioca la salute mentale di una comunità, concetto di ordine superiore a quello delle varie sindromi psichiatriche, ma che in forte misura le condiziona sia nell’insorgere sia nei processi che strutturano le forme di aiuto.
Terzo escluso
La comunità confligge con la libertà assoluta degli individui, di cui un certo pensiero politico-economico si è fatto portavoce. Confligge, oserei dire, perfino con una retorica dei diritti che pure potrebbe essere sposata in nome di ideali indiscutibili. Confligge con i diritti intesi come beni da ricevere gratuitamente, senza contro-partita; e ciò sta nella stessa etimologia del termine che deriva dal latino munus che vuol dire prestazione, compito, impegno, funzione, servizio, incarico, dovere, ma anche dono come “tributo di affetto e di cortesia”.
Ne risulta che com-munitas è l’insieme di persone unite non da una ‘proprietà’, ma da un dovere o da un debito. Non da un ‘più’, ma da un ‘meno’, da una mancanza (Esposito, 1998). La comunità, dunque, come sistema di interdipendenze reciproche.
La comunità risolve in sé la dicotomia tra libertà e uguaglianza re-introducendo, accanto al principio razionalizzante della giustizia sociale (che lo Stato e i servizi pubblici proclamano, ma non sanno garantire ) e al principio della libertà di iniziativa privata (che non sa mai autolimitarsi né distinguersi concettualmente dall’egoismo) il principio della fratellanza che porta a far sì che il problema di uno sia il problema di tutti. Su questo principio nasce quello che noi operatori sociali chiamiamo welfare di comunità.
Follia generatrice
Ma se la comunità non si può progettare razionalmente, come giustamente Bauman ci ricorda, si possono costrui-re spazi, pre-condizioni che possono favorire il suo sviluppo, favorendo, direi, una conversione della deriva individualista dell’attuale civiltà.
Le pratiche di salute mentale, sperimentate a macchia di leopardo nel nostro Paese dopo la legge 180, potrebbero senz’altro dare un contributo nella direzione di tale processo: che cos’è infatti una cooperativa sociale di inserimento lavorativo se non un modo di produrre a misura del più debole? Ma se una persona “normodotata” trovasse, in tale contesto integrato, la possibilità di un’alternativa al lavoro alienante di un call-center, in quale direzione si muoverebbe l’aiuto?
Che cosa può significare la presenza di un gruppo-appartamento in un condominio? Ma ancor di più, quale può essere il senso di un punto di acquisto di prodotti biologici che si realizza all’interno di un Centro Diurno per la Salute Mentale? il recupero di uno spazio verde all’interno di un ex OPG restituito alla frui-zione cittadina? Non sono forse forme di restituzione di valori, di lentezze, utili alla società intera?
L’area della salute mentale è un laboratorio esemplare di comunità per almeno tre caratteristiche: anzitutto la sua intrinseca vocazione ad essere la cartina di tornasole delle nuove forme di disagio, di segnali allarmanti di perdita di coesione sociale. Poi, la sua forte esigenza di gratuità: la persona con disagio psichico può suscitare movimenti di emarginazione, disinteresse, stigma. Le risposte di tipo clinico e farmacologico, certamente necessarie, non saturano lo scambio operatore-utente. Chiamano in causa altri attori sociali. Infine, la sua paradossale creatività. Nella follia c’è sempre una parte di genialità, di ilarità, di spiazzamento che il mondo sociale organizzato tende ad annientare, fino a perdere la capacità della gioia, del sorriso, del ridimensionamento situazionale (non prendersi troppo sul serio).
Siamo noi responsabili di tutto ciò?
La domanda inevasa che Dio, tramite Caino, ci ha lasciato in eredità, aspetta ancora una risposta. Essa non può non interrogarci come cristiani, perché spesso la comunità è intesa solo come un contenitore della vita spirituale. Il punto, che forse meriterebbe un’ulteriore riflessione, è se essa non vada vista invece come il primo soggetto trascendente di cui possiamo fare esperienza vera. E come un corpo fa esperienza di malattia quando un suo organo comincia a pulsare e a far male e un’altra parte se ne prende cura, massaggiandolo, riparandolo, curandolo, così le parti fragili del corpo sociale ci danno segnali di sofferenze collettive la cui guarigione è la festa (Lc 14, 12-14) alla quale siamo chiamati e che dobbiamo responsabilmente preparare in questo mondo prima che nell’altro.