La fisarmonicista di Auschwitz
Esther Bejarano ha vissuto uno dei paradossi più turpi e scandalosi del Novecento. Una delle pagine più inquietanti e forse meno conosciute dell’apocalisse nazista. Il suo racconto fa letteralmente piangere. Questa donna minuta, sorridente, piena di passione per la vita, che ancora oggi sale sui palchi d’Europa per cantare le canzoni della resistenza e della pace insieme al gruppo rap Microphone Mafia, era la fisarmonicista dell’orchestra femminile di Auschwitz. Ha dovuto suonare, insieme ad altre quaranta prigioniere, la musica d’accompagnamento all’olocausto. Esther ricorda, con le lacrime che le scendono dalle guance, i lampi mostruosi di quell’inferno: “Succedeva pure che i comandanti del campo ci ordinassero di andare a suonare alla porta di transito dei treni con i prigionieri destinati alle camere a gas. Noi suonavamo le nostre musiche di Bach, Beethoven, Mozart, Schumann, sistemati con i nostri spartiti lungo il troncone del binario. I treni passavano carichi di uomini, donne, bambini. Sapevamo benissimo il destino che di lì a poco attendeva quei carichi di condannati. Ma quella gente, là sopra, non aveva il minimo presagio di quello che gli sarebbe accaduto e molto probabilmente avrà pensato fra sé: ‘Ma guarda un po’, non dev’essere poi così male questo luogo se ci accoglie con una musica tanto celestiale’. Di lì a poco tutta quella gente sarebbe stata annientata col gas”.
Fermare l’imbarbarimento
La storia di Bejarano e dell’orchestra femminile di Auschwitz (raccontata anche in Italia nel libro La ragazza con la fisarmonica) è un paradigma dell’orrore, della spietatezza e della malvagità del crimine nazista. È l’abisso del male che copre di note e spartiti l’urlo metafisico della morte di massa. È un enorme buco nero, come un uragano che preme sulla storia di oggi mettendola a giudizio. Ecco perché Esther non vuol sentir parlare di esclusione, di rifiuto, di respingimenti dei nuovi profughi che bussano alle porte del vecchio continente: “L’Europa ha il dovere, proprio in virtù di quanto è accaduto settant’anni fa – ha detto pubblicamente reagendo alla tragedia di Lampedusa – di accogliere i profughi che bussano alle nostre porte perché la cattiveria e l’imbarbarimento che abbiamo vissuto sulle nostre spalle non si ripercuota oggi, nelle tante forme del rifiuto, sulle spalle dei poveri del Sud del mondo”.
Il 16 novembre la Bejarano è stata premiata a Berlino con il Blue Planet Award, un riconoscimento della Fondazione Ethecon (Ethic & Ökonomie) per il suo impegno pacifista e antifascista (nel 2004 ha ricevuto la medaglia Ossietzky della Lega internazionale per i diritti umani e nel 2012 la grande croce al merito della Repubblica Federale Tedesca). Ha letto, in un silenzio quasi sacrale, le pagine dei suoi ricordi dal libro appena pubblicato in Germania.
Era il 20 aprile del 1943 quando Esther entrò ad Auschwitz. Aveva 18 anni. Il padre, Rudolf Loewy, primo cantore della comunità ebraica di Saarbrücken e la madre Margarethe vennero arrestati e uccisi in un bosco nei pressi di Breslau. La sorella Ruth venne ammazzata con il marito ungherese durante un tentativo di fuga sul confine svizzero. Esther non sapeva della morte della sorella quando arrivò ad Auschwitz: “Scesi dal treno e mi fermai sulla rampa insieme a una settantina di altre donne. Venni completamente rasata, spogliata, rivestita con gli stracci dei prigionieri. Mi tatuarono un numero sul braccio sinistro: 41948. Ero un nuovo numero del campo di sterminio Auschwitz-Birkenau”. Per alcune settimane Esther fu costretta a trasportare delle pesantissime pietre da una parte all’altra di un bosco, un lavoro durissimo che l’avrebbe in poco tempo debilitata e annichilita. Ma una sera, improvvisamente, irruppe nel blocco una violinista polacca, Zofia Tschaikowska, chiedendo se ci fossero delle prigioniere in grado di suonare uno strumento perché i nazisti le avevano affidato il compito di istituire un’orchestra: ‘Mi feci subito avanti – racconta Esther –- dissi che sapevo suonare il pianoforte. Ma la Tschaikowska mi rispose che non era possibile suonare il pianoforte dato che non esisteva un pianoforte nel campo”. Però se tu sai suonare la fisarmonica – aggiunse – possiamo fare un esame”. Non avevo mai suonato una fisarmonica in vita mia eppure mi venne spontaneo dire di sì, che avrei potuto sostenere l’esame di fisarmonicista. Mi ordinò di suonare dicendo così: “Tu sei la più fortunata fra queste donne, Bel Ami”. E suonai, con grande stupore di me stessa. Riuscivo ad armonizzare le note della tastiera con i tasti dell’accompagnamento. Così entrai, insieme ad altre due amiche, nell’orchestra femminile di Auschwitz’.
Fino alla fine di marzo del 1944 la direttrice dell’orchestra era la nipote di Gustav Mahler, Alma Rosé, un talento del violino, morta nell’ospedale del campo probabilmente a causa di un avvelenamento il 4 aprile. Nel racconto degli anni Settanta dal titolo Das Mädchenorchester in Auschwitz, che ispirò anche un film, la cantante Fania Fénelon ha ricostruito le vicende dell’orchestra, i tanti palchi improvvisati nel campo dove i nazisti ordinavano alle musiciste di esibirsi: nella piazza centrale al momento della partenza e dell’arrivo delle colonne di lavoratori, nella sala della musica quando venivano i comandanti del campo oppure nel blocco delle donne impazzite dopo gli esperimenti medici (donne incatenate ai letti o alle mura che urlavano e si dimenavano) oppure la domenica mattina, nella cappella, per la santa messa. E così sappiamo che Josef Mengele andava matto per il pezzo di Schumann Die Träumerei, “un pezzo sublime – diceva – che va subito al cuore”, oppure si racconta del giorno in cui il capo delle SS Heinrich Himmler venne a far visita al campo e si fermò ad ascoltare l’orchestra andandosene senza proferire nemmeno una parola. Il libro della Fénelon è stato criticato da Esther Bejarano e da altre prigioniere per come è stata ricostruita la personalità di Alma Rosè. Dal racconto delle Fénelon ne vien fuori una fanatica della musica e dell’esibizionismo nel mezzo della disperazione e dell’orrore nazista. In realtà, la volontà di Alma Rosè – secondo la Bejerano e altre – era quella di salvare le musiciste del campo e di impegnarle, attraverso la musica, in modo da superare l’impatto orrendo di quella esperienza.
Esther ricorda, ancora come fosse ieri, il panico che la assaliva quando Mengele passava a controllare le file delle prigioniere e a seconda di quale mano alzasse, la destra o la sinistra, significava finire nelle camere a gas o continuare a sopravvivere.
Esther suonò la fisarmonica fino a settembre del 1943 quando una prigioniera più dotata non le tolse il posto. Lei, tuttavia, continuò per alcune settimane, a suonare la chitarra.
A ottobre, durante un appello mattutino, venne ordinato alle prigioniere che avessero una qualche traccia ariana nel sangue di compilare un modulo con il riferimento al parente non ebreo. Esther aveva una nonna totalmente tedesca. Compilò il formulario e, pochi giorni dopo, si trovò su un treno in direzione del campo di lavoro di Ravensbrück: “All’inizio mi impiegarono nel reparto di carico e scarico di carbone per circa un mese, poi venni collocata in un’officina della Siemens dove lavoravamo ai pezzi di ricambio per i sommergibili”. La comandante del campo era una donna particolarmente brutale e sadica – ricorda la Bejarano – ed era solita tenere ferme le prigioniere agli appelli del mattino anche per dodici ore al freddo e al gelo, soprattutto se ci fosse stato un tentativo di fuga. Fu durante uno di quegli appelli che la Bejarano si ammalò di nefrite e dovette curarsi all’ospedale. Ma l’indomani si presentò all’appello senza la forza di reggersi in piedi. La comandante la percosse con cattiveria estrema colpendola con un grosso libro alla testa.
Alla fine di aprile del 1945 i nazisti, oramai incalzati dai russi e dagli alleati, decisero di evacuare il campo organizzando una marcia della morte (Todesmarsch). I prigionieri vennero obbligati ad allungarsi in lunghe file e furono costretti a camminare per giorni e giorni attraverso prati, boschi, strade. Molti caddero, altri vennero freddati a bruciapelo. A un certo punto i nazisti scapparono e ci fu un caos generale. Esther trova rifugio, insieme ad altre amiche, per la notte in un fienile di contadini. “Al mattino – ricorda – incrociammo due panzer americani. Ci chiesero di mostrargli il numero tatuato sulle braccia. Poi ci caricarono sugli automezzi e ci portarono a cena in un ristorante. Raccontammo i dettagli delle nostre vicende ad Auschwitz e a Ravensbrück. Mi chiesero di suonare. Nel ristorante c’era una fisarmonica. Suonai con tutte le energie che avevo. I soldati ballavano. Abbiamo riso, cantato. La guerra era davvero finita”.
Ad agosto del 1945 Esther raggiunse Marsiglia e da qui, con una nave, arrivò ad Haifa. Nel 1950 si sposò con Nissim Bejarano. Nel 1951 nacque la figlia Edna e nel 1952 il figlio Joram (chitarrista del gruppo Microphone Mafia). Nel 1960 tornò in Germania. Nel 1986 fondò l’Auschwitz-Komitee. Dal 2009 suona e canta nel gruppo rap Microphone Mafia raccontando la sua storia e denunciando ogni forma di ingiustizia e di razzismo. Dice di sé: “Mi reputo una donna fortunata. Ho visto cumuli di cadaveri accatastati l’uno sull’altro, ho visto spegnersi tante compagne di viaggio. Io sono sopravvissuta grazie alla musica”.