POLITICA

Una Costituzione minacciata

L’attacco alla Costituzione è un attacco ai diritti e alla democrazia: questo è il lascito del berlusconismo, un’eredità difficile. Quali i danni sotto il profilo istituzionale?
Nicola Colaianni (docente di Diritto Ecclesiastico alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari)

Sembra la fine di un ventennio ciò che è accaduto in pochi giorni alla fine del 2013: Berlusconi decaduto dal Parlamento; il suo partito all’opposizione: ma si tratta dell’avatar Forza Italia avendo subito la scissione dei “ministeriali”; fine, conseguentemente, del governo di larghe intese, posto dal Capo dello Stato come condizione della sua rielezione; inizio di un inedito governo centrosinistra –nuovocentrodestra, che mai era stato proposto, perché inconcepibile, agli elettori. 

Vedremo se il ventennio è davvero finito: morto un papa se ne fa un altro e non è detto che si verifichi una discontinuità. Certo, è di grande importanza la decadenza di Berlusconi. L’art. 67 della Costituzione recita che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” e ci consola perciò esserci liberati di un tale nostro rappresentante. Ma occorrono ben altre conferme per riparare i danni che il berlusconismo ha prodotto sotto il profilo istituzionale. In questi venti anni a soffrirne è stato soprattutto lo stato costituzionale di diritto con il suo sistema di diritti, regole, pesi e contrappesi per evitare sovrapposizioni e conflitti di poteri. 

La Costituzione 

L’attacco alla Costituzione come legge superiore, e perciò capace di orientare le altre, è stato costante e non c’è voluto molto perché il veleno inoculato a dosi massicce si diffondesse nell’intero schieramento politico, anche democratico. 

L’attacco cominciò con il primo governo Berlusconi nel 1994. Un sedicente “ministro dell’armonia” s’incaricò di scavare un fossato con la “gioiosa macchina da guerra”, uscita sconfitta dalle elezioni, reclutando professori – “saggi”, ovviamente – per disegnare la nuova Costituzione. Il movimento di difesa della Costituzione nacque in quell’anno, grazie all’appello di Giuseppe Dossetti, raccolto dal sindaco di Bologna e da una serie di comitati locali. Quella legislatura ebbe vita breve ma, nella successiva, il discorso riprese e stavolta con il fattivo apporto del centrosinistra, che pur aveva vinto le elezioni e governava: ma la riforma bipartisan della Costituzione fu offerta per ottenere un’opposizione benevola al governo Prodi. Il veleno ormai aveva fatto effetto: la Costituzione veniva messa sul piatto della bilancia degli equilibri di governo, diveniva merce di scambio politico.

La riforma non passò solo perché Berlusconi, visti i sondaggi che lo davano vincente, ritenne più conveniente far saltare il tavolo delle trattative ormai quasi concluse. E, tuttavia, il centrosinistra, ormai privo di anticorpi, decise ugualmente di approvare la riforma dell’intero titolo quinto sul cosiddetto federalismo. Una riforma affrettata, che ammiccava all’elettorato leghista e intanto frantumava alcune competenze tra Stato e regioni (sanità, ambiente, turismo, ecc.), istituiva altri enti come le città metropolitane senza abolire almeno le province. Ma soprattutto approvata con una maggioranza risicata: il che costituiva un precedente deleterio, per cui era possibile cambiare la Costituzione con la sola maggioranza governativa, anche per un pugno di voti in più: come se si trattasse di una legge ordinaria qualsiasi.

Il precedente, com’era prevedibile, veniva utilizzato dalla maggioranza di centrodestra uscita dalle elezioni del 2001: ne venne fuori il disegno organico di una riforma completa della seconda parte della Costituzione. Un inaudito governo personale del primo ministro: poteva fare e disfare il governo a volontà, non doveva chiedere la fiducia alle Camere,  le poteva sciogliere a suo insindacabile giudizio e non ne poteva essere sfiduciato se non a pena di scioglimento delle Camere stesse. Un Parlamento sotto ricatto, quindi, senza che il Presidente della Repubblica potesse obiettare alcunché, perché la sua attuale funzione di garanzia si riduceva a poco più di una formalità. Nell’intervallo tra le elezioni un uomo solo al comando. Le Camere con il solo compito di affiancarlo. La democrazia si sarebbe risolta in un mandato a chi governa.

Riforme?

L’ignavia e la passività, che non di rado si riscontrano nella popolazione, davanti alla legge di stravolgimento della Costituzione voluta dal governo Berlusconi cedettero il posto a una grande reazione popolare: dopo tanti referendum andati a vuoto, quello del 2006 non solo raggiunse il quorum ma, bocciando a grande maggioranza quella legge, segnò una prova di maturità costituzionale degli italiani.

Ma il fuoco covava sotto la cenere: quando sembrava che, a parte le estemporanee uscite berlusconiane, con quel referendum  la Costituzione sembrava messa in sicurezza, tanto da non essere neppure sfiorata come argomento di dibattito nella campagna elettorale dell’anno scorso,  ecco il colpo di scena: il governo delle larghe intese, nato sotto l’alto protettorato del presidente della Repubblica (che con questo e altri gesti precedenti e susseguenti ha avviato una repubblica presidenziale di fatto), ripropone come programma unificante la riforma della seconda parte della Costituzione. E lo fa con uno sbrego alla Costituzione: non seguendo la procedura ordinaria prevista dall’art. 138, ma revisionando proprio l’art. 138 al dichiarato scopo di accelerare la riforma. Come il ricordato ministro dell’armonia berlusconiano, anche Letta nomina un pletorico comitato di “saggi” incaricato di dissodare il terreno e di riproporre sostanzialmente quel modello semplificato di democrazia – un premier che non risponde al Parlamento perché, se da questo sfiduciato, non va a casa ma è lui che manda a casa il Parlamento – che il corpo elettorale ha bocciato otto anni fa.

Lo sbrego non avrà modo di espandersi perché, dopo la fuoriuscita di Forza Italia dal governo, le larghe intese si sono ristrette e non ci sono più i numeri. Ancora una volta, paradossalmente, dobbiamo a Berlusconi stesso l’antidoto al berlusconismo che ha contaminato anche le forze e la cultura democratica. Che non hanno neppure l’alibi della supposta celerità del procedimento: sette mesi, utilizzando l’art. 138 vigente, bastavano ed erano d’avanzo per condurre in porto almeno le tre puntuali riforme da quasi tutti condivise: la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto e l’abolizione delle province. Ma evidentemente, come s’è detto, le riforme cui si pensava erano ben altre.    

In realtà il programma di riforme costituzionali, che s’è fatto strada in ampi settori dei pur – a parole – contrapposti schieramenti politici, tende a demolire il sano principio di equilibrio e bilanciamento tra i poteri centrali. Sotto attacco è la seconda parte, quella ordinamentale: che in fondo rappresenta il patto di convivenza tra vincitori e vinti alle elezioni, in modo che chiunque vince non possa vincere fino in fondo grazie al bilanciamento dei poteri ivi previsto.

Diritti civili

L’attacco alla Costituzione come patto di convivenza significa, tuttavia, intaccarne il programma: attenuare, limitare e, almeno in via di fatto, abolire la tutela giuridica dei diritti di cittadinanza, riconosciuti nella prima parte. È quello che sta accadendo senza colpo ferire. Pensiamo ai diritti civili: sono ormai quattro anni che la Corte Costituzionale prima, la Corte di Cassazione dopo, hanno statuito che le unioni omosessuali, se non possono aspirare alla costituzione di un matrimonio, hanno diritto tuttavia a un riconoscimento come formazioni sociali ai sensi dell’art. 2 della Costituzione. Ma nulla ha fatto il legislatore, che anzi non riconosce in qualsivoglia modo neppure le unioni eterosessuali. Pensiamo al diritto al lavoro: qui  il legislatore è intervenuto, ma per legittimare la contrattazione aziendale anche in deroga alla legge. Che è un modo per vanificare – certo, con il consenso dei lavoratori messi di fronte all’alternativa della chiusura dell’azienda e della perdita del posto di lavoro – l’art. 36 della Costituzione che pone il principio della retribuzione comunque tale da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Pensiamo al diritto alla salute: nel caso dell’ILVA di Taranto si sta intervenendo con legge per modificare le soglie d’inquinamento e così aggirare l’iniziativa penale della magistratura.

L’attacco alla Costituzione è un attacco ai diritti e alla democrazia: questo è il lascito del berlusconismo al di là della persona di Berlusconi. Chi pensa che, messo fuori gioco Berlusconi, abbiamo eliminato l’anomalia della nostra vita democratica, in realtà abbassa la guardia e – fatte le dovute proporzioni – dimentica che, abbattuto il fascismo, l’autoritarismo di quel regime continuò a calpestare per anni i diritti fondamentali sanciti nella Costituzione.

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