Vita di una eremita
Per ritrovare quel senso di comunità che appartiene a tutti.
Per riscoprire il senso della Vita.
“Ogni vita comincia alla soglia di una tomba” scrisse diversi anni fa André Chouraqui all’inizio della sua stupenda autobiografia (Chouraqui, A., Forte come la morte è l’amore, Cinisello Balsamo 1994, pag. 8). Adriana, alla fine del suo resoconto di vita eremitica, conclude: “… appena il nome, per chi voglia cercarmi tra le tombe, e sotto: ‘Completa la sua resurrezione’. Ma non è necessario cercarmi. Mi basta il ricordo dell’erba che non mancherà di rinverdirmi. E non portatemi fiori: fioriranno le viole” (Zarri, A., Un eremo non è un guscio di lumaca, Torino 2011, pag. 197. Per tutte le successive citazioni si fa riferimento al medesimo testo).
Adriana Zarri: teologa, scrittrice, attenta osservatrice della nostra realtà politica ed ecclesiale, impegnata nelle grandi battaglie civili della storia recente del Paese, dal 1975 sceglie di ritirarsi in campagna abbracciando una forma di vita eremitica, coltivando la terra, occupandosi degli animali e, naturalmente, scrivendo. Informandone con una lettera “circolare” gli amici, sente il bisogno di difendere la sua scelta da due possibili malintesi: il primo che la preghiera, vissuta così radicalmente, possa essere vista come qualcosa di alienante, in antitesi a una piena partecipazione alle cose del mondo; il secondo, più legato alla sua storia personale, che il “ritirarsi“, dopo decenni di lotte e battaglie nell’arena pubblica, dato il “clima restauratore” del momento, possa essere letto come abbandono del campo per “delusione e stanchezza”.
Nel deserto
Niente di tutto questo: “Nel deserto si entra, si cammina, ci si immerge, assumendo la storia e i problemi di tutti. Impegnandosi e lottando contro le alienazioni di questo mondo, come ho sempre fatto e farò”. E ancora: “la preghiera, anzi, è la contestazione più profonda di questo nostro mondo utilitario, in quanto mette in crisi non già le forme d’espressione in cui si manifesta, ma il modello antropoculturale che le esprime: un modello essenzialmente efficientistico, privo di quegli spazi di fantasia, di poesia, di gratuità su cui si innesta appunto la preghiera”.
Quanto alla stanchezza e alla delusione, Adriana chiarisce: ”Ma nel silenzio non si entra per stanchezza. Per stanchezza ci si chiude nel mutismo, che è tutt’altra cosa. Né io sono delusa da Dio, anche se posso esserlo di qualche uomo che tuttavia non può soffocare la speranza, alimentata dallo Spirito”. A distanza di qualche anno, avendo raccolto su richiesta dei suoi lettori in un libro le lettere dall’eremo già pubblicate ogni quindici giorni sulla rivista Rocca, dopo aver riportato la lettera di cui sopra, così commenterà: “Forse, oggi, quella lettera cercherei di farla più scarna, più pulita, forse addirittura meno monastica; e non perché sia diminuito l’amore per questa vita, ma perché è aumentato l’amore per la vita…”.
Il resoconto di vita va da una stagione all’altra, da un autunno all’altro, seguendo e impastandosi ai colori, ai profumi, ai lavori in casa e fuori casa nell’orto e con gli animali, dove il “banale” quotidiano e il sublime si assommano e si compenetrano. La solitudine non esclude però i rapporti semplici ed essenziali con gli abitanti del luogo e gli amici ora lontani, perché “l’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro”.
Non è tagliato fuori il mondo, grazie a giornali, riviste, corrispondenza: è proprio l’eremita che deve leggere, per non chiudersi ai drammi e al divenire della storia. A chi poi per caso arriva al Molinasso ed esclama: “Beata lei, che abita in questo paradiso, lontana dalla città e dalla cattiveria del mondo!”. Adriana chiede, non senza irritazione, ma anche un poco sorniona, se è disposto a tornarci d’inverno… l’invito è subito declinato all’apprendere che c’è umido, freddo, niente luce elettrica e diversi disagi. Anche all’eremo piove: “piove il cielo aggrondato e piove la vita, con tutti i pesi e le fatiche che gravano su ogni dimora e su ogni uomo”.
Eppure si è nella pace, quella pace simile a un lago profondo e appena increspato in superficie, che niente ha a che fare con la pace mondana del quieto vivere e dell’evitamento. Se all’eremo piove, la serenità non sta nell’aspettare, anche con pazienza, il bel tempo, ma credere che anche la nebbia è sereno e la pioggia sole. L’eremo non è però solo pregno di vicende e accadimenti umani ma, come ogni cascina che si rispetti, è piena di animali. Non mancano i corvi liberi di volare intorno e dentro la stalla conigli, tacchini, paperi, polli. Fuori dalla stalla tortore, colombi, e naturalmente un cane e un gatto, anzi una gatta, Ottorina, che nelle gelide notti invernali si trasforma in una borsa calda sotto le coperte. Chiede a un certo punto un lettore: “Come fa un monaco laico a mantenersi? Penso, infatti, che oggi la povertà non escluda l’indipendenza economica, che è dovere per tutti”. Semplice, lavorando. E il lavoro al Molinasso è duro: agosto insopportabilmente caldo, gennaio freddissimo, le zanzare torturano, l’attività della fienagione stanca sul serio, l’acqua spesso gela nella stalla e si è costretti a intervenire con il martello. Un lavoro tosto e scarsamente remunerativo, ma: “Il monachesimo, più o meno consciamente, forse ha intuito che, nell’armonia che si ritesse tra l’uomo e l’universo, il lavoro è un momento forte di dialogo. Perché uno dei frutti della vita monastica mi sembra proprio un grande senso di armonizzazione con le cose; e forse un altro è la scoperta e il gusto del lavoro”.
La preghiera
Di fatto si lavora sempre con la fretta, proiettandosi alla fine del lavoro e poi ancora oltre, senza riuscire a stare veramente nel presente, a quello che ci occupa adesso. Una fuga più che un andare verso qualcosa: “Accade anche per il lavoro che l’erba del vicino (ed è magari l’erba del nostro ‘dopo’) ci pare sempre più verde; mentre è esattamente il contrario: l’erba più verde è la mia, quella che cresce nel mio orto, quella del mio ‘oggi’ del mio ‘ora’ perché soltanto quella è stata coltivata da Dio per me, e soltanto quella mi può nutrire di rugiada, di verde, di vita; non di illusioni e di velleità. La cosa più importante è sempre quella che sto facendo. Allora non debbo avere fretta”. È così che alla fine la preghiera stessa si fa indistinguibile dall’abitare il quotidiano: “E mi abbandono alla preghiera personale, senza formule fisse: parole che si smorzano spesso nel silenzio. Neanche sempre in cappella, sovente fuori, stesa sull’erba, immersa nelle cose e nelle vita (e gli animali che mi camminano sopra, mi s’accucciano addosso, come un abbraccio caldo di pelo e di respiro). La preghiera non riesuma antichi testi ma è immersa nel mio oggi”. L’intellettuale “pura” di un tempo è divenuta un’intellettuale incarnata, “contaminata, sporca di vita materiale”, che non rinnega metà del suo lavoro, però può consapevolmente dire, giunta all’ultima stagione, che è più importante vivere che fare: “...La vita è una collana di possibilità perdute; e tanto più si fa densa, ricca di curiosità, di interessi, di spazi, tanto più le possibilità, le occasioni, le esistenze perdute aumentano. Ma esse non sono che modi del tutto secondari rispetto a qualche cosa che ci cresce e ci matura dentro, e che è appunto la vita”.
La Vita, semplicemente.