Essere Maschi

Tra potere e libertà. Stereotipi femminili e maschili a confronto e costruzione di un’identità di genere nel mondo d’oggi. Intervista a Stefano Ciccone.
Intervista a cura di Patrizia Morgante

“È nell’unità della componente femminile e maschile che si può esprimere in pienezza l’umano.” Maria Voce (nell’introduzione al libro Tenacemente Donne

Come sei approdato a questo tema del maschile?

Non sono partito da un disagio, da una marginalità, ma dalla fatica di dover corrispondere continuamente a un’aspettativa sociale legata al mio essere maschile. Ci sono arrivato partendo dalla mia esperienza di uomo, di maschio che aveva successo: ero il leader che parlava alle assemblee, spigliato, affidabile. Lessi il libro “Dalla parte delle bambine”, che parla di un’educazione che limitava la soggettività delle bambine dentro un ruolo e mi sono detto che quel racconto in realtà parlava anche di me: dietro quel modello stereotipato c’era un condizionamento per gli uomini, magari di un ruolo di privilegio, di potere, gerarchicamente superiore, di maggiore autorevolezza, ma comunque di un obbligo sociale di corrispondenza a un’aspettativa che non rispettava la singolarità e l’individualità di ognuno.

Si parla molto di donne, ma spesso solo in chiave di femminicidio. Cosa ne pensi?

Tutta la comunicazione pubblica sulla violenza produce una distorsione rendendo visibili solo le vittime e rappresentando le donne come vittime, come soggetti deboli, bisognosi di tutela; riproduce, quindi, un’idea di minorità e debolezza femminile, che è parte della cultura della violenza. Non si parla mai di violenza come questione maschile, come un comportamento prodotto dagli uomini e come il frutto di una cultura diffusa. 

Condivido ciò che dici…

Noi abbiamo cercato di invertire quest’approccio e di partire dalla violenza per parlare degli uomini, non solo come assunzione di responsabilità e di colpevolizzazione generale (tutti gli uomini portatori di violenza), ma, al contrario, capire che, se la violenza è frutto di una cultura, bisogna vedere quanto questa cultura condizioni, vincoli e ingabbi anche la vita degli uomini; quanto, dietro la violenza maschile, può esserci anche una miseria nella vita degli uomini, una miseria nella loro sessualità, nel loro immaginario sessuale, nella loro idea di coppia, di amore e di passione spesso confusa con la possessività, col controllo e il dominio.

Quando abbiamo iniziato a parlare di violenza ci siamo trovati a parlare di noi, di uomini, scoprendo che questo parlare di noi non corrispondeva solo a un dovere o a un’assunzione di responsabilità, ma rispondeva anche a un bisogno, a un desiderio di raccontare le nostre vite e la voglia di cambiamento che non veniva socialmente riconosciuto.

Stefano, proviamo a delineare un’identità maschile declinata all’oggi...

Si parla spesso di “crisi del maschile”, ma è un’espressione molto ambigua, perché nasconde dentro di sé delle cose molto diverse. C’è un po’ questa retorica degli uomini in crisi, minacciati dal cambiamento, intimoriti dalla libertà delle donne, privi di un loro ruolo. C’è un’altra immagine connessa e che parla della violenza maschile come frutto di un disordine, esito della crisi dell’autorità del maschile, crisi della legge del padre e del ruolo paterno nella società: si sarebbe perso un ordine virile, una capacità di autocontrollo degli uomini, di dominio di se stessi. 

Forse sono sbagliate entrambe?

Sì, credo che siano errate entrambe: sono due letture che colgono un dato, che è la crisi di autorevolezza di un modello maschile tradizionale e una crisi di senso tra generazioni diverse di uomini; la violenza non è frutto di un disordine, ma il prodotto proprio di quella cultura virile consolidata. Il problema è capire: questo cambiamento che è oggettivamente avvenuto nelle relazioni tra donne e uomini, questo cambiamento che ha rotto un potere maschile e un’autorità indiscussa, è una minaccia per gli uomini o è anche un’opportunità? 

Penso alla sessualità...

Esattamente. Nella visione tradizionale si vedeva una sessualità tutta incentrata sul maschile, dove il desiderio femminile era socialmente rimosso, il piacere femminile non era tematizzato, la libertà sessuale femminile non era riconosciuta; dentro questa visione gli uomini avevano senza dubbio un ruolo di predominio, forse anche una grande miseria sessuale. Sicuramente una relazione non schiacciata su quei ruoli  è più complessa e difficile, ma anche più ricca: innanzitutto per me.

Io percepisco, oggi, una difficoltà del maschile: puoi parlarci un po’ dell’esperienza di Maschile Plurale (http://maschileplurale.it)?

Maschile Plurale è innanzitutto una rete di uomini che vogliono lavorare su se stessi, ma fa un lavoro di confronto con i ragazzi nelle scuole e con uomini molto diversi da noi. Io mi sono trovato a lavorare nelle carceri con gli uomini condannati per stupro e violenza e con uomini delle aziende o dei centri sociali: in realtà ti accorgi che le differenze sono minori di quelle che ti aspettavi. In carcere mi aspettavo di incontrare dei mostri, uomini che non hanno niente a che fare con me, invece, parlando con loro, mi sono accorto che ci sono gli stessi luoghi comuni, le stesse battute, le stesse ricerche di complicità. Vediamo, infatti, che la violenza appartiene a tutte le classi sociali e a tutti gli ambienti culturali e politici. 

La banalità del male...

Io credo che il punto è cercare di ascoltare un desiderio maschile di cambiamento che non trova le parole per esprimersi e che spesso si rivolta in disagio. E questo per diverse ragioni: ci sono grossi freni al desiderio maschile di cambiamento, come la paura del ridicolo; un uomo che si sposti da un modello tradizionale di maschile è automaticamente un uomo meno autorevole, appunto ridicolo: perché questo cambiamento viene decodificato come una sorta di femminilizzazione. Noi uomini siamo schiacciati continuamente dall’ansia di dimostrare la nostra virilità, di confermare la nostra mascolinità, e ogni scostamento viene percepito come un rischio di perdita di identità. Una donna che si afferma nel lavoro è detta “con gli attributi”; un uomo sensibile, femminile, è molto più a rischio nella sua identità sessuale. Anche quando parliamo di uomini che si prendono cura dei figli, li definiamo “mammi”, perché pensiamo che assumano delle competenze prettamente femminili, non che in proprio scoprano una capacità maschile di cura.

In genere in questi casi si dice che gli uomini scoprono la parte femminile dentro di loro...

A me non spaventa scoprire la mia parte femminile, ma invece qui si tratta proprio di scoprire il mio modo maschile differente di prendermi cura. Penso che su questo ci siano molti segnali di cambiamento maschile: pensiamo agli uomini che si prendono cura dei propri figli in un modo molto diverso dalle generazioni precedenti; uomini che mettono in gioco il proprio corpo nella relazione con i propri figli, nell’affettività, nel contatto fisico; uomini che si trovano a vivere una sessualità diversa dal passato, se non altro perché incontrano delle donne differenti. Io vedo nelle scuole, ad esempio, che i ragazzi si misurano con ragazze che sono più autonome e intraprendenti nel determinare e affermare il proprio desiderio.

Questo non vuole dire che le ragazze siano emancipate sul piano della sessualità...

Infatti, alla maggiore precocità e promiscuità non corrisponde un cambiamento dei modelli culturali.

Torniamo al cambiamento maschile...

Questo desiderio di cambiamento maschile non trova la parole per esprimersi, sono esperienze più individuali e private; invece le donne hanno costruito delle esperienze collettive sulla sessualità, sul lavoro. Oggi per gli uomini il lavoro non è più luogo totalizzante che definisce la propria identità, come era per i loro padri, e anche la sessualità non è quell’esperienza autistica dove vigeva una scissione tra la donna perbene e la donna permale. Tutto questo è cambiato tantissimo, però nessun uomo trova spazi collettivi per esprimere questo cambiamento che rimane un fatto molto personale. 

Come se questo desiderio maschile non fosse socializzato e autonomo dal percorso femminile...

Maschile Plurale è stata un’esperienza molto legata al femminismo, ha riconosciuto un grande debito alle donne, che hanno saputo costruire punti di vista, categorie, strumenti, spazi dove uomini come me hanno potuto trovare un luogo per dare voce al proprio desiderio di cambiamento.

Oggi dovremmo fare un salto in più, trovando parole autonome che siano in grado di parlare agli uomini, non solo a quelli già sensibilizzati o che politicamente hanno avuto un percorso di questo tipo. Non si tratta di fare appello solo alla responsabilità degli uomini, al loro autocontrollo, alle regole, quanto di dare spazio a un desiderio di cambiamento. 

Quando andiamo nelle scuole, i ragazzi ci dicono “voi venite qui a dare regolette: non bisogna essere volgari e violenti; io invece voglio rivendicare il mio diritto alla trasgressione!”. Il punto è mostrare che quella “trasgressione” è in realtà un’osservanza rigida di un obbligo sociale: tu sei un maschio se dici schifezze, se ti comporti in modo aggressivo e volgare, se fai gestacci; sei uomo se sei trasgressivo, in realtà stai obbedendo in modo rigido a degli obblighi sociali. Infatti, se chiediamo loro “perché non vi tenete per mano?”; rispondono “non sono mica una femminuccia o un finocchio!”.

Questo atteggiamento è legato anche all’omofobia...

Cambiando punto di vista possiamo affrontare anche l’omofobia, la paura dello stigma e della denigrazione, in modo altro: in genere ci riferiamo solo a coloro che hanno un orientamento sessuale diverso dalla norma eterosessuale. Invece, dovremmo domandarci quanto l’insulto verso i gay funzioni come dispositivo di controllo su tutti gli uomini; tutti gli uomini sentono in quella denigrazione contro il “finocchio” un’avvertenza: se si spostano troppo dalla regola eterosessuale che ti vuole in un certo modo, precipiteranno nell’abisso dell’indistinto, del senza dignità. Quindi, l’insulto diventa un regolatore sociale per gli uomini, fomentando quella paura al cambiamento maschile: è uno dei tanti freni al cambiamento culturale.

Scusa se torno un momento indietro: non deve essere stato facile per te confrontarti in carcere con degli uomini accusati di stupro o femminicidio...

Sì molto faticoso... andavo lì da una parte con un profondo freno e pregiudizio e dall’altra con l’ansia di non esprimere questo pregiudizio. Mi ha molto colpito il trovarmi davanti a persone che riproducevano discorsi e rappresentazioni molto conosciuti; non si presentavano come trasgressori di un ordine tradizionale, ma al contrario, come persone che riaffermavano quest’ordine: facendo riferimento a come dovrebbero essere i rapporti tra donna e uomo, alla moralità. Si percepiva un rancore maschile, sul quale vale la pena riflettere. 

Un rancore che può portare fino alla violenza?

Questi uomini raccontano una rappresentazione molto diffusa dei rapporti tra donne e uomini e spesso un’incomprensione per una punizione sociale che a loro non appare così grave; ovviamente tutti si dichiarano innocenti, e raccontano non una storia di violenza e dominio, quanto una dinamica relazionale dove quella violenza assume un senso limitato al singolo gesto. 

Un esempio è il rancore verso il potere femminile della seduzione. Abbiamo una costruzione sociale che ci racconta di asimmetria nel desiderio tra donne e uomini: gli uomini sono portatori di un desiderio bulimico e senza freni e le donne non hanno desiderio sessuale. Non a caso il modello sociale che abbiamo è quello della disponibilità femminile: o la disponibilità all’accoglienza materna, della cura che fa sacrificio di sé, o all’accoglienza della prostituta o della donna della pubblicità, che non mette in gioco il proprio desiderio, ma che è lì per rispondere al desiderio dell’uomo. Se questo schema si rompe, resta il rancore per il potere seduttivo femminile e per un suo uso opportunistico, frutto del gioco delle parti tra i sessi.

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