PAROLA A RISCHIO

Ho paura

Sotto il segno di un mondo incandescente: seguendo le orme della paura.
Stella Morra (Teologa)

La paura gode di una pessima fama nel nostro mondo, che ha eletto a propria legge l’esaltazione della prestazione: la paura rallenta, impone valutazioni, chiede attenzione concentrata e pone domande, fa sentire fragili, incerti, fa cercare con gli occhi il sostegno di qualcuno o qualcosa, rivolge fuori di sé. Dunque, la paura non è funzionale al risultato, e non consente di credere in se stessi al di sopra di qualsiasi cosa, ci offre uno spettacolo del nostro stesso sentire che difficilmente possiamo dimenticare e che rende evidente, innanzi tutto a noi stessi, i nostri confini e le nostre possibilità.

Come tutti i sentimenti profondamente umani, archetipali, la paura ha molti volti e molte forme, possibili percorsi che si rivoltano contro noi stessi e la nostra vita, e che dunque vanno “addomesticati”, ma contiene anche una riserva di possibilità e di occasioni. E la possibilità e occasione fondamentale che la paura ci offre è prendere atto dell’incandescenza del mondo e della storia, del loro essere altro e ingovernabili; e, insieme, la spinta a cercare rifugio, salvezza, compagnia. Baricco, ad esempio, ci dice che si leggono libri per paura: ...forse, sempre, e per tutti, altro non è mai, lèggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall’incontrollabile strisciare via del mondo. Non si leggerebbe, nulla, se non fosse per paura …Si legge per non alzare lo sguardo verso il finestrino, questa è la verità. Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vile – gli occhi inchiodati su quelle righe per non farsi rubare lo sguardo dal bruciore del mondo – le parole che a una a una stringono il fragore del mondo …Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e più dolce custodia di ogni paura – un libro che inizia ... (Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, 1991).

Vittime incapaci

Certo, spesso la paura (specie se non riconosciuta, se vissuta come frustrazione di una impotenza che diventa intollerabile) produce invece la forma violenta di una affermazione di sé che nega il mondo e l’altro. Spesso le donne e i bambini, nella nostra cultura, hanno fatto e fanno l’esperienza di diventare vittime di questa paura rimossa e rifiutata che rivolge l’incandescenza verso un “oggetto” concreto e vissuto come debole, incapace di ribellarsi e, quindi, dominabile: esercizio di rifiuto di ogni dubbio e di ogni paura fino alla negazione radicale della vita dell’altro. Non è un caso che proprio in un tempo di esaltazione della prestazione, cresca la violenza di genere… Eppure, davvero vorremo imparare a crescere insieme come uomini e donne capaci di sopportare di avere sempre il dubbio in gola, capaci di reggere alla paura.

Per metafora hanno vissuto per anni le donne. Ospiti della sua utopia. Conservando nella vita pratica il silenzio. Ora, se sottraggo il mio essere-donna al destino del silenzio, non è per vendetta, ma per giustizia. Non voglio pronunciare apodittiche verità. Riconosco semmai al discorso soprattutto un potere di rottura e di ricominciamento. Parlo perché l’altro possa anch’egli parlare. Non mi fido di parole che incantano, voglio parole prosaiche, che non dimentichino ciò che per tutti (uomini e donne) vale: v’è separazione tra essere e lingua.

So che non siamo ancora liberi, né uomini, né donne. Non ci parliamo da pari a pari. Ma io immagino (sogno) questo: di stare di fronte a un uomo che perda di fronte a me la sua tracotanza e si renda conto con me di non sapere nulla, e questa conoscenza gli strozzerà in gola la voce.... A me no; io ho sempre parlato con il dubbio in gola.

Gli uomini che come madri e amanti cresceremo, li prepareremo per questa prova, perché vogliamo con loro vivere in forme aperte e alleate. Ci incontreremo senza appartenerci, ci avvicineremo senza strangolarci in legami troppo stretti; accetteremo l’uno dall’altro l’ombra di sconosciuto che ci avvolge. Staremo nell’estraneità reciproca ammirando che l’altro possa fare cose diverse da noi, dire cose che non capiamo e tuttavia ci appartengono. Saremo noi gli Ultimi Mohicani dell’amore? Noi, le ultime donne? (Nadia Fusini, Uomini e donne. Una fratellanza inquieta, 1996).

Ho bisogno di te

Come tutto ciò che è profondamente umano, anche la paura è ben presente nei racconti evangelici: i discepoli hanno paura, come tutti, e in modo del tutto esplicito almeno in due occasioni: nel racconto conosciuto come quello della tempesta sedata (Mc 4,35-41 e paralleli) e nei racconti dell’incontro con il risorto (Mc 16 e paralleli).

Nel primo caso è davvero un racconto “classico”: gli elementi naturali, vento, mare, si scatenano e i discepoli sulla barca hanno paura perché Gesù sembra dormire, in un’assenza beata e incosciente. La natura che si scatena era, in una società pre-tecnologica, l’emblema paradigmatico di ogni incandescenza del mondo (ora noi cerchiamo responsabili e colpevoli anche per le catastrofi naturali…), di ogni ingovernabilità, di ogni necessità di trovare la nostra misura di fronte a ciò che “non siamo noi” e che “non decidiamo noi”.

Ma è soprattutto l’assenza di interesse e preoccupazione da parte di Gesù, che dorme, che sembra ferire i discepoli: non ti importa che moriamo? (Mc 4,38b). La paura ci insegna che abbiamo bisogno di un altro, del suo interesse, della sua autorevolezza, che abbiamo bisogno di essere importanti per qualcuno: di fronte all’incandescenza del mondo serve una voce, una fratellanza, un’autorevolezza che non ci possiamo dare da soli.

La mia nipotina di 4 anni, a cui raccontavo prima della nanna una storia di draghi e principesse, a un certo punto ha fatto una faccia davvero terrorizzata; le ho chiesto: “Che succede?” e mi ha risposto “Ho tanta paura nonna!”. Da bravo adulto, dimentico dell’incandescenza del mondo, ho subito detto “Non ti preoccupare, nonna cambia storia se vuoi”. Sono stata graziata di uno sguardo colmo di condiscendenza, che mi ha trapassato con un sapere antico e una pace infinita e ho ricevuto queste parole: “Ma no! Cosa c’entra, nonna… Tienimi la mano e continua la storia, è bello avere paura con te!”.

È bello avere paura? Non sempre, ovviamente. Ma ricordare i nostri confini e ricevere da altrove il dono di un punto di appoggio ci consente di avere un poco più di coraggio della paura che abbiamo e dunque di continuare a sentire e a narrare la storia collettiva che ci riguarda e ci attraversa, ci consente di abitare un mondo più grande di noi senza bisogno di dominarlo ad ogni costo.

Forse ci toccherà tornare a fare amicizia con la paura per poter costruire un mondo più inclusivo e abitato da meno violenza.

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