ULTIMA TESSERA

Per una Chiesa dei poveri

Bilancio e riflessioni a un anno dalla nomina di papa Francesco.
Luigi Bettazzi (già vescovo di Ivrea e presidente internazionale di Pax Christi)

Il 13 marzo 2013 il card. Protodiacono annunciò dalla loggia della Basilica di S. Pietro che avevamo per nuovo Papa il card. Jorge Maria Bergoglio, che aveva assunto il nome di Francesco. La nomina sorprese tutti, dagli alti vertici ecclesiastici (la stessa Cei, di fronte a una fumata bianca così tempestiva, prima di ascoltare l’annuncio inviò i rallegramenti e gli auguri al card. Scola, che ovviamente non poteva essere che lui il Papa nominato con tanta rapidità!), alla gente della Piazza e a tutti quelli collegati per televisione. Si trattava, per la prima volta nella storia, di un Papa americano, e per la prima volta di un Papa gesuita, che, per la prima volta nelle storia dei Papi, aveva assunto il nome di Francesco, e non del gesuita Francesco Saverio, come qualcuno aveva subito interpretato, ma proprio di Francesco d’Assisi, il Santo della povertà e della fraternità.

La sorpresa crebbe, e positivamente, quando papa Francesco comparve al balcone e salutò la gente con un familiare “Buona sera!”, presentandosi come vescovo di Roma e non come Sommo Pontefice di tutta la Chiesa, e quando, prima di benedire, chiese un minuto di silenzio perché la gente invocasse la benedizione di Dio su di lui! Le sorprese poi sono continuate di fronte alle sue decisioni di mantenere un vestito sobrio (bianco ma senza mantellette rosse, con le sue scarpe ortopediche e la sua croce e la sua mitria di sempre), e di restare ad abitare al Pensionato di S. Marta, andando nel Palazzo solo per i momenti di lavoro o di udienze (pare che una volta abbia ammesso che alla sua età non si cambia stile di vita, quello del contatto con la gente, e che se andava stabilmente nel Palazzo, poi ci voleva … lo psichiatra!). Le sorprese positive sono continuate nella sua vicinanza ai piccoli e agli ammalati, cosa ad esempio che allunga l’attesa delle udienze pubbliche, quando gira tutta la Piazza per accarezzare i bambini che gli vengono offerti o per dire una parola di conforto agli ammalati. L’elenco delle sorprese potrebbero continuare, ad esempio con le telefonate personali che fa a persone che gli hanno scritto o che hanno avuto nella loro vita momenti particolari, drammatici o comunque significativi. A cominciare dal nome che ha assunto, che dichiara di essergli venuto in mente quando un cardinale amico, in conclave, nel momento in cui il nome di Bergoglio andava accumulando voti, gli ha raccomandato: “Non dimenticarti dei poveri!”.

Vorrei però puntualizzare due centralità che emergono sul suo programma pontificale. Uno è appunto quello della Chiesa dei poveri. Se n’era parlato in Concilio, sollecitati dai vescovi del cosiddetto terzo mondo (a quei tempi era la parte dell’umanità che non faceva parte dei due mondi allora contrapposti, il mondo capitalista occidentale e quello orientale comunista), che era poi la maggioranza dell’umanità, la più povera, sfruttata dai Paesi dominanti, e di cui si chiedeva che la Chiesa si facesse portavoce e protettrice. In Concilio l’idea era stata smorzata, anche da Paolo VI, che temeva l’iniziativa assumesse una colorazione politica nello scontro tra le due ideologie e già pensava a una sua Enciclica, che fu poi la Populorum progressio del 1967.

Papa Francesco ha subito dichiarato che la Chiesa, per essere “dei poveri”, dev’essere “povera” essa stessa. Lui ne parla spesso, ne dà l’esempio con lo stile della sua vita, e già fa vedere quanto vuole che le strutture della Chiesa, proprio a cominciare da quelle del Vaticano, facciano capire come la semplicità e la trasparenza delle operazioni debbano manifestare che la finanza non è dominante, ma è solo uno strumento per i rapporti di carità e di fraternità. E questo risulta così evidente che dall’America del Nord già si comincia a metterlo in guardia dall’accusare il capitalismo, che con le sue sovvenzioni permette alla struttura vaticana di sopravvivere. Ma papa Francesco sente che solo uno stile di povertà e di solidarietà consente alla Chiesa di essere la Chiesa di Cristo e del Vangelo. 

L’altra finalità che emerge dalle parole e dallo stile di papa Francesco è quello di una Chiesa di “comunione”. Oggi si contesta alla Chiesa cattolica di essere “clericale”. Ovviamente non si può volere l’annullamento della gerarchia, come in alcune Chiese cristiane è avvenuto (e sono quelle che ufficialmente venivano declassate – proprio per questo – da “Chiese” a “Comunità “ cristiane), ma si vorrebbe che la gerarchia, a tutti i livelli, si riconoscesse “al sevizio” (in latino è proprio “ministerium”, che include il meno-minus di fronte al più – il magis – che è l’insegnamento, il “magistero”), con la priorità quindi dell’intero “popolo di Dio”, costituito da quanti, per il battesimo, sono inseriti in Cristo, divenendo così – per Lui, con Lui e in Lui – sacerdoti, profeti e pastori.

Papa Francesco fa spesso allusioni a quest’impostazione della Chiesa, biasimando quanti nella gerarchia mirano più al loro prestigio o alla loro carriera mentre dovrebbero privilegiare l’amore per i propri fratelli (“l’odore delle pecore”) e la loro santità personale. Dal Concilio si auspicava  una maggiore attenzione e un incoraggiamento alla corresponsabilità dei laici con il clero e dei presbiteri con i loro vescovi. Ma ciò da cui cominciava il Concilio era la collegialità dei vescovi con il Papa, e non già per attenuare il primato e la sua infallibilità, quanto per alimentarne la sicurezza e l’efficacia. Ho già notato altrove (nell’ultimo mio scritto: “Viva il Papa, viva il popolo di Dio!”) che lo stesso Vaticano I aveva definito che il Papa è infallibile quando parla “ex cathedra” perché “gode di quell’infallibilità di cui il Divino Redentore volle che la sua Chiesa fosse dotata nel definire dottrine sulla fede e sui costumi”; e se poi conclude che “le definizioni del romano pontefice sono immutabili per loro natura e non per il consenso della Chiesa” è perché il Papa deve essersi accertato di questo consenso di fede in antecedenza, come fece Pio XII per poter definire – il 1° novembre 1950 – l’assunzione al cielo  della Madonna, senza poter definire – perché non c’era il consenso della Chiesa – se la Madonna era stata assunta prima o dopo la sua morte (si limitò a dire “giunta al termine della sua vita”).

In Concilio si cominciava a ventilare l’idea di un’assemblea di vescovi che in qualche modo continuasse l’esperienza  del Concilio, cioè di una “collegialità” che portasse i vescovi a collaborare col Papa, ovviamente sempre sotto il suo controllo e con la sua autorevolezza. Paolo VI ci anticipò istituendo il “ Sinodo dei Vescovi”, che ha però sempre un carattere consultivo, preparato e gestito com’è dal Vaticano, e di cui il Papa si serve per preparare, dopo mesi, un’esortazione conclusiva.

Papa Bergoglio, forse anche impersonando la mentalità dei vescovi dei continenti più lontani, sempre guardinghi di fronte al centralismo romano, ha istituito la prima vera esperienza di collegialità, nominando otto cardinali, responsabili di sette grandi Chiese dei cinque continenti (tre per le Americhe), più il Governatore del Vaticano; essi, al di sopra della Curia, portano il pensiero molteplice della Chiesa al Papa, perché possa poi esercitare il suo Primato nel modo più efficace. E di qui potrà venire lo snellimento e il decentramento della Curia vaticana, con una valorizzazione delle Chiese locali, già annunciata dal sentirsi lui in primo luogo il “vescovo di Roma”.

Un’altra significativa manifestazione di questo suo legame col “popolo di Dio” è stata la decisione di chiedere il contributo di tutta la Chiesa in vista del Sinodo episcopale sulla famiglia, presentando una serie di domande a cui le comunità o i singoli cristiani possono rispondere esprimendo così la varietà delle opinioni. Alcuni episcopati (ad esempio in America) hanno offerto questa opportunità alle loro Chiese. Ma anche dove – come in Italia – non si è creduto di aprire questa iniziativa, si son potute trovare queste domande su carta stampata o sui mezzi di comunicazione, arricchendo così la Segreteria del Sinodo di un fastello abbondante di opinioni ecclesiali. Poi diranno loro – e dirà Lui – l’ultima parola, ma potrà essere l’ultima perché prima ce ne sono state tante altre.

Ogni Papa ha un suo compito specifico. Papa Giovanni, un Papa votato perché fosse di “transizione” in attesa di Montini, fece la “transizione” del Concilio e della Pacem in terris, Paolo VI riuscì a completare e chiudere il Concilio e a portare la Chiesa nel mondo, Giovanni Paolo I in un mese semplificò il papato e gli diede il sorriso, Giovanni Paolo II aprì la Chiesa ai problemi del mondo e fece cadere la dittatura comunista senza una guerra, Benedetto XVI rinsaldò la fede in Gesù Cristo e iniziò la purificazione della Chiesa. Ora dobbiamo pregare perché papa Francesco riesca nel compito che ha assunto, ma dobbiamo aiutarlo impegnandoci, come comunità o come singoli, ad accoglierne il messaggio e ad attuarlo in noi e intorno a noi. 

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