SALVADOR

L’angelo col cappello

Nel mese dedicato a mons. Oscar Romero, ucciso il 24 marzo in Salvador, ricordiamo Marianela Garcia,
altra giovane martire, instancabile ricercatrice di verità e giustizia per i massacri e le violenze compiute in El Savador.
3 marzo 2014 - Intervista a cura di Alberto Vitali

Fra quanti conoscono la realtà salvadoregna, è convinzione diffusa che siano le donne a garantire la tenuta sociale del piccolo Paese centroamericano. Donne capaci d’ogni genere di sacrifici per garantire un presente dignitoso e un futuro migliore alla propria famiglia, nonché d’incarnare forme di maternità spirituale nei confronti dell’intero popolo. Fra loro, Gloria Gómez, presentatami da un’amica un paio d’anni fa, non appena giunse in Italia con due figli e un nipote, figlio dell’unica figlia, uccisa da un malavitoso delle “maras” per il semplice fatto d’aver rifiutato le sue avance. Sapevo che cercava lavoro, ma la richiesta che  aveva in serbo per me era di tutt’altro genere: «Vorrei rendermi utile per la mia gente anche qua!». Così, tra una chiacchiera e l’altra, scoprii che era stata con Marianela negli ultimi giorni della sua vita. 

Come hai conosciuto Marianela?

Andai in una parrocchia di Soyapango a chiedere di poter frequentare un corso in preparazione alla prima comunione che, sebbene già adulta, non avevo ancora ricevuto. In quel mentre, arrivò mons. Romero, ma non vi feci caso perché non si era ancora messo dalla parte del popolo. A richiamare la mia attenzione furono invece alcune decine di persone che giunsero a chiedere soccorso, perché scappavano dalla violenza che imperversava in tutto il Paese. Allora non capivo un gran che di cosa stesse succedendo, ma chi mi accolse mi propose d’iniziare non solo il catechismo, ma anche un servizio di assistenza ai profughi, lì e in San José della Montaña.

Il seminario interdiocesano?

Esatto. Al seminario era annessa una parrocchia e molta gente vi si recava a chiedere aiuto. Fu là che vidi per la prima volta Marianela, ma non sapevo chi fosse. Vi era andata per raccogliere testimonianze e prove delle violenze che l’esercito perpetrava sui civili (la ricordo con un quaderno e la sua inseparabile macchina fotografica): appena si rese conto della situazione in cui versavano quelle persone si mise, come noi, a lavare le donne e a spidocchiare i bambini. Poi non la rividi per molto tempo.

Intanto però il tuo servizio andava crescendo... 

Sì, ma crescevano anche i bisogni e, rendendoci conto che non avremmo potuto farcela da soli, chiedemmo aiuto all’ONU. Fu così che partecipammo a un incontro internazionale in Messico dove, con grande sorpresa, riconobbi una delle relatrici: era Marianela, invitata in qualità di fondatrice e presidente della Commissione dei Diritti Umani in El Salvador. Nel suo intervento parlò dei quattro tipi di violenza che opprimevano l’intero continente: fisica (dalle percosse alla tortura; dalle sparizioni forzate agli omicidi), sessuale, psicologica e verbale. Il maschilismo imperante nelle nostre società si nutriva ovviamente di tutte.      

Fu allora che prendeste contatto?

No, ci rincontrammo più tardi. In quel tempo ero parte del settore ecclesiale, vale a dire: membro del Coordinamento nazionale della Chiesa popolare e ci occupavamo di aiutare le persone che soffrivano a causa della cosiddetta «guerra a bassa intensità». Una volta andammo a Guazapa, per sostenere anche nella fede le comunità che vivevano in quella zona. Per questo portammo libretti dei canti e altro materiale per la preghiera. Quando vi arrivammo, però, trovammo la città occupata dal famigerato battaglione Atlacatl e così dovemmo fuggire insieme a molti fuoriusciti, verso nord, dalle parti di Suchitoto. Del gruppo faceva parte anche Marianela, recatasi là a raccogliere prove dell’uso del Napalm e del Fosforo bianco (armi non convenzionali, n.d.r.) contro la popolazione civile. Avrebbe voluto portarle a Ginevra, alla sede dell’Agenzia dell’ONU per la Difesa dei Diritti umani. Arrivammo così nei pressi di Suchitoto, in una località chiamata El Zapote: bevemmo l’acqua che stagnava nelle impronte lasciate dalle mucche e frutti selvatici. Per la stanchezza camminavo a occhi chiusi e una volta spinsi chi mi precedeva, invitandolo a non fermarsi. Mi rispose proprio il muggito di una mucca, che avevo confuso con un essere umano. 

Quanto durò il cammino?

Alcuni giorni, ma mi parvero mesi. In un villaggio qualcuno trovò una gallina e la sera ci fermammo a mangiarla. Mentre tutti aspettavamo il nostro pezzetto, un bambino si mise a strillare dicendo che ci avrebbero uccisi tutti come quella gallina. Ripensandoci, fu quasi un presagio, ma allora nessuno lo prese sul serio. Al mattino però ci svegliò un sinistro tintinnio e, in lontananza, vedemmo la colonna del Battaglione Atlacatl che avanzava, apparentemente senza ragione, perché da quelle parti non vi erano istallazioni militari né guerrigliere. Riprendemmo quindi la fuga e Marianela era sempre con noi. A un certo punto, apparvero degli aerei e iniziarono a bombardare. Una bomba cadde poco lontano da me: mezza stordita, vidi come “piovere” dal cielo una bambina senza una gamba. I suoi genitori erano morti e lei era stata gettata in alto. La raccolsi e scappammo di nuovo. Così però eravamo usciti dal nostro percorso. Quando cinque giorni dopo tornammo indietro (non solo per riprendere il sentiero, ma anche perché P. Tilo Sánchez, che ci guidava, voleva sapere cos’era successo alla popolazione) trovammo un paesaggio spettrale. Cadaveri ovunque: anche militari, perché l’azione era stata indiscriminata e un odore asfissiante saliva dal suolo. 

Tutti colpiti dalla bombe?

Questo è il punto. A richiamare la mia attenzione furono i vestiti bruciati delle persone. Io non capivo, ma Marianela ci spiegò di cosa si trattava: era precisamente la ragione per cui era andata là. Ripresi il cammino accompagnandomi a due familiari che avevo incontrato per caso e che sarebbero morti, di lì a poco, con Marianela. Nella sosta successiva, vinta dalla stanchezza, mi assopii dopo essermi tolta anche le calze. Un pollo mi beccò e il piede, infettatosi, si gonfiò al punto che il giorno seguente non potei ripartire. Regalai allora le scarpe a un’amica e a malincuore mi fermai con altri nella zona. Quella donna morì la notte seguente con addosso le mie scarpe. Verso sera, infatti, sentimmo degli spari in lontananza e, calcolando il cammino che avevano potuto compiere, capimmo che si trattava dei nostri compagni, caduti in un’imboscata. Marianela era stata raccolta ferita e trasportata in una caserma dell’esercito, dove la torturarono a morte. L’ultima volta che la vidi, col suo cappello nero ben calato sulla testa, era l’11 marzo 1983. Era la terza volta che appariva nella mia vita, a intervalli regolari, da quel primo incontro a San José de la Montaña. E così la ricordo: come un angelo. Un angelo senza ali, ma con un cappello nero.

Poi cos’hai fatto? 

Negli anni successivi mi sono dedicata corpo e anima alle comunità di Chalatenango, con progetti culturali, come educatrice del gruppo Equipo Maíz. Confesso che col tempo quasi mi son dimenticata di Marianela, fino quando qui in Italia me ne ha parlato il nostro cappellano. Al momento non gli ho detto niente, ma a casa ho pianto. E l’ho rivista col suo cappello nero, quasi una quarta apparizione, come se volesse dirmi che, in patria o all’estero, dobbiamo continuare la sua missione in difesa dei diritti di tutti.

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