EBRAISMO

La violenza nella tradizione biblica

Perché la guerra non può essere condotta neppure “in nome” di Dio.
Amos Luzzatto

La violenza è un’imposizione esterna su individui o su gruppi di individui volta a far loro compiere azioni contro la propria scelta volontaria, o a sposare opinioni o intere teorie che contrastino il loro modo di essere o di comportarsi, o gli stessi loro radicati convincimenti. Questa imposizione può essere dovuta alla sproporzione di forza fra colui che si impone e colui che subisce l’imposizione, oppure alla imprevedibilità dell’evento esterno, che è a tal punto eccezionale, ancorché “possibile”, da non permettere a colui che ne è succube di approntare o escogitare qualsiasi difesa.

Deboli e forti
Non spenderemo troppe parole sulla violenza umana per antonomasia, che è quella della guerra. Ma una considerazione si impone. Quando si descrivono le gesta tattiche di un Alessandro Magno, di un Giulio Cesare, di un Napoleone, si coltiva volentieri l’idea di un singolo genio, tanto abile nelle mosse e contromosse da sconfiggere il più potente e agguerrito degli avversari, che è certamente forte e aggressivo, ma un tantino scemo o almeno goffo. Insomma, il genio contro il bruto. Può darsi anche che qualche volta succeda proprio così.
Credo, però, che il più delle volte il “più debole” (forse più debole numericamente) possieda strumenti bellici superiori (come l’arco lungo degli Inglesi ad Azincourt), giochi sulla sorpresa e sulle condizioni del terreno (come Napoleone ad Austerlitz) o sull’ “evento giudicato impossibile” (come nel caso dei Panzer tedeschi che attraversano il bosco delle Ardenne). La maggiore padronanza dei complessi elementi tecnici rende “più forte” quello che poteva superficialmente essere giudicato il “più debole”, e viceversa. Ma allora, David e Golia?
Golia appare il più forte fisicamente, è armato di spada, di lancia e di picca, mentre David ha da parte sua un bastone, una fionda e cinque pietre. Dietro di sé Golia ha i Filistei, David il Dio di Israele (I Sam 17, 40-46). In realtà, David sa benissimo adoperare la spada, ma la usa soltanto, dopo avere già abbattuto il suo avversario, per mozzargli la testa. Sul piano materiale, il vantaggio di David sta nell’uso appropriato che lui fa delle singole armi. Sul piano morale, nel convincimento di agire a nome di Colui cui “appartiene (o “spetta”?) la guerra”: “ki le H. ha-milchamà wenatan etkhem be-yadenu” (I Sam 17, 47).

Il nome di Dio e la guerra
Che cosa vuol dire, esattamente? Cerchiamo di dedurlo da tre brani biblici nei quali il nome di Dio è posto in parallelo alla parola “guerra”. Il primo è la Cantica del Mare (Es 15,1-19). Traducendo molto alla lettera, e pertanto omettendo in italiano la copula, leggiamo: “Il Signore guerriero, il Signore il Suo nome”. Non sembra esservi un rapporto logico tra il primo e il secondo emistichio. (c) Olympia Sembra quasi che il testo voglia sottolineare il parallelismo tra la parola guerriero e la parola nome. Nel secondo brano è appunto David che dice: “Tu vieni a me con spada, con lancia e con picca ma io vengo a te con il nome del Signore delle moltitudini, che tu hai insultato”.
Infine, il terzo brano (Sal 20,8): “Gli uni giungono con carri, gli altri con cavalli – ma noi ricorderemo il nome del Signore”.
È come se ci si dicesse che la guerra, l’ “arte della guerra”, nella quale l’uomo si sente potente e crede di poter affermare la sua forza, non può essere condotta neppure “in nome” di Dio (Gott mit uns), perché la guerra stessa non gli appartiene, non è uno strumento umano, ma è inclusa nelle facoltà divine (nel “nome” di Dio) che ne dispone come Egli ritiene più giusto – e basta. Sono coerenti con questa concezione varie narrazioni bibliche. A partire dalla guerra inverosimile che muove Abramo con i suoi garzoni contro ben quattro re per liberare suo nipote Lot. Guerra-lampo vittoriosa, mossa per giunta da un mite capostipite di miti e timidi Patriarchi! A continuare con l’annegamento nel Mar Rosso di tutte le truppe del Faraone, per pensare poi all’assedio di Gerusalemme mosso dal terribile re assiro Sancheriv, l’invincibile, sconfitto dalla mano divina. Ciò è coerente, infine, con Zaccaria 4, 6: “Non con la truppa e non con la forza, ha detto il Signore delle moltitudini, bensì con il Mio spirito”.

La “violenza ” di Dio
Se la stessa guerra, che è la maggiore delle violenze umane, non appartiene all’uomo ma a Dio – il quale pertanto la decide, nel suo sorgere, nella sua evoluzione, nelle sue conclusioni – non è influenzata dall’ “arte bellica umana”, anzi spesso la contraddice, che dire delle altre forme di violenza? Appartiene certamente a Dio la violenza della natura. Prima di tutto perché, oltre ad aver creato gli oggetti materiali nella loro sostanza, Egli ne ha prescritto le forme (Sal 26, 10; Pr. 8, 27 e 8, 29; Gb 38, 33) e ne ha stabilito le regole, le leggi di natura, come le chiamiamo noi moderni (Ger. 5, 22; Sal 28, 26 e 148, 6; Pr 8, 29). Le leggi prevedono anche eventi eccezionali, spesso cataclismi micidiali che noi non sappiamo prevedere, che sembrano contraddirle, a meno che queste ultime non siano totalmente espressione della volontà divina che, per definizione, è imprevedibile.
Questi cataclismi hanno a che fare con il comportamento o con la volontà umana?
Se si risponde negativamente, abbandonandosi a un rassegnato fatalismo, si nega nel contempo la Provvidenza divina e ci si colloca inevitabilmente su un terreno religiosamente agnostico. Dio si configura allora come un potere misteriosamente e imprevedibilmente antiumano, crudele e forse addirittura cinico. Alcuni cristiani potrebbero consolarsi dicendo che tale sarebbe propriamente il Dio degli Ebrei e non il Dio dell’Amore. Ma sarebbe una posizione molto debole, anche sul piano logico.
Se, invece, si risponde affermativamente, si accetta la violenza divina nella sua qualità di azione orientata, punitiva nei confronti dei malvagi, che ha lo scopo di salvaguardare dal peccato incombente coloro i quali ne sono ancora esenti. Tale è, ad esempio, il caso del diluvio universale ai tempi di Noè o quello della distruzione di Sodoma e Gomorra ai tempi di Abramo e di Lot. Vi è poi un caso ulteriore: la violenza divina esercitata nei confronti di quegli uomini che usano violenza nei confronti dei propri simili; ed è il caso dell’affogamento dell’esercito faraonico nel Mar Rosso, dopo l’attraversamento all’asciutto da parte degli Ebrei.
Ma è proprio questo modello che richiede un esame più approfondito, perché la violenza dell’uomo sull’uomo non ha nulla a che fare con la “legge del più forte” alla quale parrebbero ispirarsi i lottatori delle Olimpiadi nella antica Ellade. In quel caso, almeno all’apparenza, i contendenti dovrebbero partire da un piano di pari occasioni e possibilità. In altre parole, sarebbe il risultato della contesa l’unico metro possibile per stabilire chi fosse in partenza il più forte. È un modello che serve di bandiera anche ai fautori della libertà d’impresa, della libertà di concorrenza e di altre libertà ancora. È un modello bellissimo, che ha un solo difetto: non si verifica mai nella vita concreta.

Compassione e memoria
Gli Ebrei che attraversano il Mar Rosso sono gerim, che significa residenti precari, ai quali non spettano molti di quei diritti che spettano ai residenti stabili, chiamati nella Bibbia ezrachim. Per queste due categorie umane non esiste il filo di partenza eguale: il ger è, a priori, il più debole. Ora, la schiavizzazione degli Ebrei in Egitto è un modello, tristemente molto diffuso nella storia umana: violenza usata da chi è in partenza più forte nei confronti di chi è, già in partenza, più debole. È una violenza clamorosamente evidente ad Auschwitz; ma esiste anche laddove essa è occultata nei segreti dei conti bancari o nella precarietà del lavoro, e non per questo è meno reale.
La Bibbia respinge questo modello: “... E non opprimere il ger; voi ben conoscete il sentire del ger, perché siete stati gerim in terra d’Egitto” (Es 23,9). È un chiaro invito alla compassione (con-passione) un invito a quella comprensione per il debole che può provare solo colui che si è già trovato (o che è consapevole di potersi trovare) nella medesima situazione di inferiorità. Oggi essa viene chiamata spesso solidarietà.
È chiaro che si tratta di un sentimento al quale si può e si deve educare, ma che trova forti ostacoli nella società umana dove raramente si rinuncia al proprio vantaggio di partenza. Questa solidarietà richiede poi la conservazione della memoria della propria sperimentata inferiorità; e la memoria ha due difetti: si attenua con il passare del tempo ed è selettiva, molto spesso cancella ciò che disturba nel presente. Si può pertanto persino proclamare la memoria e nel contempo praticare l’oblio. E allora?
“Se lo tormenterai ed egli mi invocherà, darò ascolto alla sua invocazione. E mi adirerò, e vi ucciderò per spada; e le vostre donne diventeranno vedove e i vostri figli orfani”. (Es 22, 22-23). Questa è la “violenza di Dio” che sostituisce alla perdita della compassione, nutrita dalla memoria del passato, un avvenire non meno severo. Per molti basta il monito che deriva da questo modello di punizione, senza attendere la punizione stessa. Per molti altri, no: invece di accettare questo monito, essi si faranno pronti paladini di civiltà, vedendo in questo modello la ritorsione propria della Legge del taglione e la crudeltà del divino. Con orgoglio condurranno la loro battaglia per una civiltà più avanzata rispetto a quella della “vecchia” Bibbia. Ma intanto, il ger seguirà il suo destino.

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