EBRAISMO

Lo scandalo dello Shalom

La vittoria ottenuta con la sconfitta violenta del nemico non conduce mai alla pace. Il senso dell’esperienza storica ebraica.
Brunetto Salvarani

Non sono giorni e mesi facili, questi, per gli operatori di pace. Fra i tanti motivi della loro sofferenza c’è, mi pare, quanto espone nel suo quarto sutra Raimon Panikkar nel recente Pace e interculturalità: “La vittoria ottenuta con la sconfitta violenta del nemico non conduce mai alla pace”. “La pace non è il contrario della guerra. – vi si legge anche – L’eliminazione della guerra non sfocia automaticamente nella pace. Questa è la ragione per cui il cammino verso una vera pace non è la vittoria su uomini”.
Dietro le considerazioni di Panikkar, che conosce il racconto biblico non meno dei testi sacri delle tradizioni religiose orientali, sta il senso scandaloso dello shalom ebraico. Egli sa bene che il tema della ricerca della pace appare oggi sempre più fragile e lacerante, ma nel contempo decisivo per il futuro della specie umana: quella pace che, agli occhi dei credenti nel Dio di Abramo e di Mosé, i nostri fratelli maggiori secondo la fulminante definizione di Giovanni Paolo II, non è innanzitutto un problema di ordine etico o sociale, bensì piuttosto un tema di ordine rivelativo, che sta nello spazio della fede e ci fa toccare con mano tutta la nostra limitatezza.

Lo sguardo di una minoranza
La pace biblica, infatti, è vita piena e completa, allegria, benedizione, gratuità, e il suo opposto – più che la guerra – è la violenza in genere: quella radicata nel cuore dell’uomo e capace di ferire l’ordine delle relazioni intraumane, tra l’umanità e le cose, il creato tutto, e tra l’umanità e Dio. Per i figli di Israele essa è sempre stata, in primo luogo, un dono divino, al quale concorrono, del resto, scelte concrete nell’agire quotidiano, quali la pratica della giustizia, la liberazione dell’oppresso, la difesa dei poveri, la disponibilità verso l’altro. Non una teoria filosofica né un’utopia, ma una forma di educazione e di riconciliazione che va (c) Olympia sperimentata passo dopo passo, nella fatica di una storia che per il popolo ebraico ha purtroppo preso quasi sempre tutt’altre direzioni: la diaspora, il ghetto, l’antigiudaismo eretto a sistema, fino alla catastrofe abissale della Shoà.
In effetti, la gloria militare non è mai stata, salvo eccezioni che tendono a confermare la regola, tra i primi posti fra i valori ebraici, sin dall’epoca scritturistica. Il re Davide, che pure è progenitore del Messia, non poté costruire il Tempio a causa del sangue versato in battaglia; né il ferro doveva toccare le pietre del Tempio stesso, perché esse erano avanim shelamot, vale a dire pietre di shalom. E la festa di Chanukkà, che ricorda la riscossa dei Maccabei contro l’oppressione ellenistica del II secolo prima dell’Era Volgare, non ha al suo centro la vittoria militare, ma piuttosto il ritrovamento nel Tempio di un’ampolla di olio vergine che arse miracolosamente per otto giorni, permettendo di reinaugurare il culto dopo la contaminazione idolatrica (Chanukkà significa infatti inaugurazione). Nella Mishnà, poi, è detto che “su tre cose si regge il mondo: sul diritto, la verità e la pace”, il che viene così commentato: le tre cose in realtà sono una sola, se il giudizio è eseguito in modo conforme alla verità ne è naturale conseguenza la pace.
Agli occhi disincantati di un pensatore ebreo di oggi fra i più acuti nel panorama europeo, il nostro Stefano Levi Della Torre, peraltro, se il Giudaismo è risultato storicamente più mite al confronto col Cristianesimo e con l’Islam, ciò sarebbe dovuto principalmente al fatto che esso non ha avuto mai posizioni di potere e di impero paragonabili a quelle raggiunte dagli altri due monoteismi (mi rifaccio a un suo bel libro di qualche anno fa, Mosaico): “Soprattutto a partire dalla distruzione del secondo Tempio, nel 70 E.V., il Giudaismo può essere visto come una straordinaria elaborazione di un punto di vista di minoranza sul mondo”. Mentre appare certo che dopo le tragiche rivolte contro la dominazione romana, nel I e II secolo, dopo il crollo del Tempio di Gerusalemme, le grandi deportazioni e le crocifissioni di massa sotto l’impero di Adriano, il Giudaismo prese consapevolmente le distanze dalle dottrine di guerra, tanto che l’eroe dell’ultima consistente rivolta nazionalista, Bar Kochba (cioè figlio della stella), che Rabbi Aqiba aveva designato quale Messia, sarà successivamente chiamato Bar Kosba (figlio della menzogna).
Le dottrine del Giudaismo combattente degli zeloti – il movimento rivoluzionario antiromano di maggior successo anche ai tempi di Gesù – furono rovesciate in dottrine pacifiste, la figura del Messia liberatore fu proiettato in un futuro remoto, e la sopravvivenza della religione dei Padri fu più affidata allo studio della Torà, al rispetto delle mizvot (i precetti) e all’indipendenza culturale e religiosa nella diaspora, che non alla lotta ormai vana per l’indipendenza politica nella terra d’Israele. Tanto che nella Mishnà si dice che è veramente prode non colui che conquista città bensì chi governa il proprio temperamento; e il Maharal di Praga, nel XVI secolo, commenterà: “Infatti, il conquistatore dipende, per essere tale, dalle città che conquista; chi domina se stesso è invece davvero indipendente”.

Nella terra dei padri
Segnali di approfondimento strategico, rispetto a questo filo rosso, verranno poi da quello che è stato definito da Italo Mancini il pensiero neoebraico del Novecento, destinato ad allargare a raggiera la consolidata scelta per la via della pace e della nonviolenza.
Il suo capostipite è senza dubbio Martin Buber, nato a Vienna nel 1878 e morto a Gerusalemme nel 1965, uno di quegli uomini la cui vicenda esistenziale indurrebbe a credere che abbiano vissuto contemporaneamente più vite, tanto fu intensa, multiforme e realizzata.
Sin da giovanissimo, egli si dedicò alla riscoperta dello straordinario patrimonio spirituale del chassidismo dell’Europa orientale, ed entrò nel primo movimento sionista, affermando da subito la necessità di valorizzarne sempre più la dimensione spirituale. Nel 1916, quindi, nel cuore triste della guerra mondiale, aveva abbozzato il suo principale scritto filosofico, Io e tu (dato alle stampe nel ‘23), in cui esprime il punto di partenza della sua filosofia. Si tratta della constatazione che, in principio, non sta il cogito, l’io penso, bensì la relazione Io-Tu: caratterizzata dalla reciprocità, dall’apertura, dall’immediatezza.
Dal principio dialogico, dunque, che vale sia per i rapporti fra l’uomo e l’altro uomo, la natura, gli animali, sia per i rapporti col Tu eterno costituito da Dio. Da questo punto di vista, secondo Buber, negli incontri personali col Tu eterno una rivelazione avviene non soltanto là e allora, sul Sinai, ma qui e ora, ogniqualvolta l’uomo sia disponibile a riceverla. Anzi, la Bibbia non è un linguaggio morto o passato, ma un racconto vivo degli incontri dialogici tra l’umanità e Dio. Inutile sottolineare la forte virata impressa da questo prolifico pensatore, che propugna l’idea di un Ebraismo ben capace di fare i conti con la modernità, optando per la strada della convivenza pacifica anche per quanto riguarda il problema dei problemi di Israele nel secolo breve: la questione del rapporto con gli Arabi nella Terra dei Padri.
Già nel ‘21, durante un congresso sionista, egli giunse a proporre una risoluzione secondo cui il popolo ebraico avrebbe dovuto proclamare risolutamente il proprio “desiderio di vivere in pace e fraternità con il popolo arabo e trasformare la patria comune in una repubblica in cui entrambi i popoli avranno la possibilità di un libero sviluppo”. Un auspicio che ci è ancora davanti, purtroppo, e un conflitto che sta mettendo a dura prova la tradizionale opzione nonviolenta di una porzione, almeno, dell’Ebraismo moderno: all’interno del quale la discussione su tale punto è assai accesa, e meriterebbe un excursus ampio e articolato, che oltrepassa i limiti angusti di un articolo come questo (per cui rimando a un volume recente particolarmente documentato, di Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana 2003).
Senza Buber, in ogni caso, sarebbe impossibile immaginare il magistero altissimo del lituanofrancese Emmanuel Levinas, scomparso pochi anni or sono, che in qualche modo oltrepassa l’idea stessa di nonviolenza con la sua riflessione sulla necessità di aprirsi al volto dell’altro, per conservare in vita la nostra civiltà nelle sue espressioni migliori: il dialogo è a due, mentre la prossimità dell’altro implica, oltre ai due, un terzo. Dopo la stagione della metafisica, il primo millennio dell’era ebraico-cristiana, e dopo quella della coscienza soggettiva, il secondo millennio, in apertura del terzo – secondo Levinas – occorrerà infine una nuova teshuvà, una conversione profonda alle ragioni altrui, alla nuda realtà del volto, appunto.
Tanto da fargli tradurre un versetto biblico centrale nel pensiero d’Israele, Levitico 19,18 (“Ama il prossimo tuo come te stesso”), in modo tale da aprirsi radicalmente al novum: “Ama il prossimo tuo: è te stesso”. Un punto di vista di minoranza sul mondo, certo, una volta di più per la tradizione ebraica, nella stagione contrassegnata dalle guerre preventive e dal terrorismo generalizzato; ma anche l’unico itinerario verosimile, a ben vedere, per evitare l’autodistruzione del pianeta e la violenza di tutti contro tutti.

Note

Direttore della rivista “Qol” e della fondazione ex campo di Fossoli, assessore presso il Comune di Carpi (Modena), studioso ed esperto di dialogo ecumenico e interreligioso

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