PALESTINA

Per un’alternativa pacifica all’Intifada

La resistenza della verità, il coraggio della nonviolenza, nel cuore del conflitto più cruento.
Raed Abusahlia

Narra la leggenda che un gigante mandò una lettera minacciosa a un altro gigante che abitava in una terra vicina. Quando questi ricevette il messaggio, lo strappò e corse dal primo per vendicarsi, tanto velocemente che la terra tremava sotto i suoi piedi. Sentendo il rumore dei passi, il gigante che aveva mandato il messaggio si spaventò a morte. La moglie lo tranquillizzò, consigliandogli di usare il cervello piuttosto che i muscoli. Lo fece mettere a letto e lo coprì, lasciando fuori solo i suoi enormi piedi. Quando il gigante furioso si avvicinò alla donna, questa espresse il suo rincrescimento per l’assenza del marito da casa e lo pregò di non

Il voto di nonviolenza
"…I conflitti presenti in tante parti del mondo e i più forti venti di guerra di questi giorni ci inducono a pensare e ad agire in modo alternativo. Non vogliamo fare soltanto dichiarazioni o appelli, che spesso cadono nel vuoto. Raccogliamo il grido delle madri che assistono impotenti alla morte dei loro figli e il grido dei bambini e dei giovani che non conoscono il volto della pace.
Per rispondere a questo grido, facciamo nostro un gesto proposto dal movimento cattolico internazionale per la pace Pax Christi: esprimere con la vita il voto di nonviolenza.
Esso costituisce l’invito a percorrere una strada giorno dopo giorno assumendo alcuni impegni: vivere la pace ed essere costruttori di pace nella vita quotidiana; accettare la sofferenza piuttosto che infliggerla; perseverare nella nonviolenza nelle parole e nei pensieri; vivere in modo sobrio; operare in modo nonviolento per cominciare a sopprimere le cause di violenza, dentro se stessi e nel mondo.
Per i credenti la pace è, anzitutto, identità in cammino, stile di vita, essere profondo.
Il magistero solenne e verticale può, così, intrecciarsi al magistero quotidiano e orizzontale di laici credenti, tessitori di rapporti umani, sarti del mantello del diritto, testimoni di speranza perché innamorati del Cristo morto e risorto, ‘nostra pace’”...

Capitolo generale delle FMA (Figlie di Maria Ausiliatrice), settembre 2002
alzare la voce per non svegliare il bambino. Notando gli enormi piedi sporgenti dal letto, il gigante si disse: “Se questo è il figlio, chissà come sarà suo padre!”. Ebbe paura e andò via.
Non ho narrato questa storia con l’intenzione di sminuire gli sforzi straordinari che sono stati compiuti nella resistenza all’occupazione, malgrado il fatto che stiamo combattendo un gigante che si vanta della sua forza. L’ho narrata per proporre una nuova idea che non è basata sul meccanismo della “resistenza dei muscoli”, ma sulla “resistenza del cervello” e sulla “resistenza della verità” derivata dalla legittimità e dalle risoluzioni dell’Onu.
Chiamerò questo meccanismo alternativo nonviolenza nel senso gandhiano di Satyagraha, che significa resistenza della verità o resistenza dell’amore. È stato usato da quell’uomo scarno, con un grande spirito, Mahatma Ghandi, che ha potuto sconfiggere “l’impero su cui il sole non tramontava mai”, scacciando l’occupazione britannica dal continente indiano e costringendo la più grande potenza del mondo di quel tempo a concedere l’indipendenza al suo Paese.
Il suo allievo, Martin Luther King, ha usato lo stesso metodo per liberare i neri d’America dalla schiavitù e dalla discriminazione razziale in base al colore della pelle, realizzando la piena eguaglianza dei diritti civili.
Contemporaneamente, Nelson Mandela ha potuto, mentre era in prigione per 27 anni, sconfiggere il governo del Sudafrica che, per tutto un secolo, aveva praticato la politica di segregazione contro i neri. La forza della ragione e della verità alla fine ha prevalso in tutti questi casi. Il nostro caso non è da meno rispetto a quelli citati, le nostre rivendicazioni non sono affatto inferiori in termini di giustizia e legittimità. Nella nostra lotta abbiamo utilizzato mezzi nonviolenti, particolarmente durante la prima Intifada con il combattente per la libertà Mubarak Awad, che ha creato il Palestinian Center for Non-Violence Studies.
Tuttavia, quando le autorità israeliane hanno compreso il pericolo di tali tecniche, lo hanno messo in prigione e lo hanno liberato dopo tre mesi, costringendolo a lasciare il Paese. Ora vive a Washington e dirige la International Non-Violence Organization. L’ho incontrato due anni fa mentre preparavo la mia tesi di laurea in filosofia su “Violenza e nonviolenza nel pensiero islamico”. Gli ho chiesto di ritornare e riprendere la sua lotta. Ma i suoi molti impegni là e la situazione inadatta qui gli hanno finora impedito di ritornare. Questo non significa che le sue idee siano morte e siano state dimenticate. Sono ancora utili e potrebbero essere efficaci ed efficienti.
Di conseguenza, invito i miei fratelli palestinesi ad adottare la strategia della nonviolenza, che è basata su un principio chiaro: il popolo palestinese, possedendo la forza della verità e delle risoluzioni dell’Onu, è più forte con le pietre che con le armi, ed è ancora più forte con i rami d’olivo che con le pietre. La nonviolenza cerca mezzi civili e di difesa nonviolenta che permettano alla gente di organizzare un’effettiva resistenza invece di raddoppiare le condanne che, l’esperienza ha insegnato, sono inutili e inefficaci. Di conseguenza, è essenziale per beneficiare del coraggio storico deporre le armi e le pietre e innalzare ancora una volta il ramo d’ulivo che il presidente Arafat ha alzato nel suo famoso discorso alla Nazioni Unite, nel 1974, in cui ha detto: “Sono venuto qui portando un ramo d’ulivo in una mano e una pistola nell’altra. Non lascerò cadere il ramo d’ulivo dalla mia mano”.
Sono convinto, per una serie di ragioni molto valide, che in questo momento si renda necessaria la scelta della strategia del ramo d’olivo.
Abbiamo adottato ogni mezzo violento di resistenza prima della creazione di Israele, durante e dopo, e fino a oggi in questo modo abbiamo dimostrato il nostro coraggio e documentato una storia di atti eroici. Purtroppo, abbiamo perso tutte le battaglie e il mondo ci definisce “terroristi” perché non abbiamo saputo convincerlo, in modo civile, che abbiamo ragione, che siamo non gli oppressori ma gli oppressi, che siamo non il carnefice ma la vittima. Tendo a credere che il mondo fino a oggi, nonostante la consapevolezza, la conoscenza e il riconoscimento dei nostri diritti, non ci sostenga abbastanza. Questo è dovuto alla propaganda israeliana che distorce l’immagine degli Arabi attraverso i mass-media ed è dovuto alla sensibilità del mondo di fronte ad ogni atto di violenza che commettiamo.
La sproporzionata violenza esercitata da Israele è perdonata e accettata, ma la resistenza da parte nostra è sempre rifiutata, condannata e identificata con il terrore. Ecco perché è inevitabile usare un nuovo linguaggio che possa essere compreso dal mondo intero. È il linguaggio della nonviolenza con tutta la forza di pensiero e di simboli che comprende e che può avere un effetto più forte sui mass-media che le immagini riportate dalla stampa di bambini che tirano le pietre ai soldati e dei soldati che sparano loro. Anche le immagini dei bombardamenti e delle esplosioni sono diventate normali per il mondo, mentre la gente paga un quotidiano pesante prezzo in termini di vite e di nervi.
Il circolo della resistenza e della violenza e la corrispondente sproporzionata violenza da parte israeliana formano un percorso vizioso continuo e crescente. Il nemico ostinato non capisce che i sacrifici di un intero popolo per la propria libertà (c) Olympia e indipendenza non sono atti di terrorismo: né si darà per vinto, a causa del proprio orgoglio, poiché si considera una superpotenza che non può essere sconfitta dalle pietre dei bambini. Di conseguenza, occorre trovare uno sbocco a questa situazione che appare oggi senza via d’uscita: non si deve risparmiare al nemico l’imbarazzo, ma occorre imbarazzarlo con nuove modalità che non diano la possibilità di giustificazioni e pretesti per rispondere violentemente, incurante della propria immagine di fronte al mondo. In questo modo, potremo scacciare l’occupazione e conservare la sua dignità e la nostra dignità.
Ma la motivazione più forte e più importante per questa svolta strategica è che l’energia presente nelle masse deve essere espressa in qualche modo. Potrebbe essere usata per innescare un circuito di sempre maggiore violenza, sino a farla diventare esplosiva e difficilmente controllabile. Con quali risultati, però, è difficile prevederlo, perché ci troveremmo in una situazione totalmente dominata dalle emozioni, del gruppo e dell’individuo. Tutti i settori della nostra società sono direttamente influenzati dall’Intifada, vi partecipano o la soffrono.
La partecipazione della grande maggioranza, anzi, è passiva perché la gente soffre silenziosamente e si lamenta. Ma con una nuova via pacifica, ognuno può essere mobilitato per partecipare ad ogni iniziativa. E anche i Paesi confinanti, arabi e islamici, possono essere coinvolti. È possibile che molti stranieri e amici di ogni parte, persino Israeliani di movimenti per la pace che simpatizzano con la nostra causa, siano mobilitati, vengano in nostro aiuto e osino partecipare alle nostre attività senza essere additati come terroristi.
Ho descritto la mia idea e le forze che dovranno essere impegnate per realizzarla. E invito i politici, i religiosi e i dirigenti a studiare l’idea per attuarla prima possibile. Sarà consigliabile consultare gli esperti locali e internazionali in questo campo, particolarmente accademici che hanno condotto apposite ricerche.
Concludo con un verso del Vangelo: “Ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti odiano”. Amare i nemici non significa sottomissione o debolezza o cessione dei propri diritti, ma piuttosto la richiesta di quei diritti con la forza dell’amore.
So molto bene che queste idee strategiche richiedono conoscenza e comprensione, educazione e preparazione, tempo e leadership.
Ma so anche che è meglio cominciare prima che sia troppo tardi, prima che altro sangue sia versato.

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