POLITICA

Il nuovo che vogliamo costruire

A colloquio con Fausto Bertinotti.
Il dibattito dentro Rifondazione Comunista sulla nonviolenza.
Intervista di Tana De Zulueta

Rifondazione comunista ha avvitato un dibattito importante sull’uso della forza e la nonviolenza, toccando corde profonde della sinistra storica italiana e suscitando anche qualche polemica, in particolare sulla lettura e sul giudizio da dare sulle grandi battaglie del movimento operaio nel ‘900. Come nasce questa riflessione? Ma soprattutto dove si colloca la prospettiva della nonviolenza nell’approccio del partito della rifondazione comunista ai problemi del mondo d’oggi, a partire dalla spirale guerra-terrorismo? Può la nonviolenza essere la risposta a una visione anche planetaria del diritto fondato sulla forza?
Pone una serie di domande complesse alle quali per tentare di rispondere esaurientemente necessiterebbe uno spazio non circoscrivibile a quello di un’intervista breve. Spero, quindi, che mi si scuserà per lo schematismo con il quale cercherò di rispondere a tutte le questioni che vengono poste. Innanzitutto, vorrei insistere sul carattere processuale della ricerca che stiamo avanzando. Non abbiamo da proporre un corpo sistematico e compiuto di teoria e pratica di una (c) Peacelink nuova politica della trasformazione sociale. Come si dice “ci interroghiamo camminando”, ovvero, nel mentre siamo partecipi di un nuovo grande movimento mondiale, quello che contesta la globalizzazione neoliberista, proponiamo delle riflessioni su quanto questo movimento chieda di innovazione nelle culture politiche del novecento. Da dove nasce questa riflessione? Possiamo dire da un dato negativo e da uno positivo. Quello negativo è il fallimento delle rivoluzioni del ‘900. Lo scorso secolo ha visto il più grande tentativo di scalata al cielo nella storia dell’umanità. Ma questo tentativo ha subito una sconfitta storica.
Noi dobbiamo indagare i motivi di questa sconfitta. Non possiamo limitarci a criticare le degenerazioni delle società del cosiddetto “socialismo reale”, dobbiamo andare più in fondo e capire perché quel rovescio è stato possibile. Noi proponiamo di leggere questa sconfitta anche nel rapporto tra mezzi e fini, ovvero in quello tra la cosiddetta “presa del potere” e poi l’organizzazione statuale e della società, quindi, nel rapporto tra potere e società civile, movimenti, conflitti. Non va posto solo il tema della democrazia come pluralismo ma qualcosa ancora più profondo di questo, ovvero l’idea della rivoluzione come presa del potere. Da qui, per noi, l’idea della “rifondazione” comunista, cioè del tentativo di fondare nuovamente una nuova prospettiva della trasformazione sociale.
Il dato positivo è l’irrompere sulla scena mondiale del “movimento dei movimenti” che ha innovato profondamente le culture politiche. Questa innovazione ha tante facce e sarebbe troppo lungo tratteggiarne quelle che ci appaiono più significative. Per la discussione che ci riguarda più da vicino in questo dialogo, va messa la nonviolenza come pratica attiva e radicale. Questo movimento ha saputo reagire alla repressione brutale di Genova senza cadere nella trappola repressione/ violenza/nuova repressione, sottraendosi a quella spirale. Contemporaneamente non ha minimamente “diplomatizzato” la critica.
L’esperienza del “train stopping” segnala bene questa capacità di coniugare la radicalità dell’opposizione alla guerra, che può portare anche alla disobbedienza contro leggi o decisioni del potere ingiuste. Per questo motivo, il movimento non è rimasto prigioniero della coppia guerra-terrorismo. Ha saputo anche qui sottrarsi alla scelta di stare con l’uno contro l’altro (qualsiasi “uno”) proprio perché ha maturato un’altra scelta.
Noi, intendo qui Rifondazione Comunista, ci ritroviamo in questa linea di pensiero e di azione. Pensiamo che sia un’innovazione feconda anche per chi, come noi non ha smesso di proporsi la prospettiva della trasformazione sociale, per dirla in termini classici, della rivoluzione. Anche qui uso per brevità un’espressione sommaria. Con la critica alle esperienze del ‘900 abbiamo maturato ciò che non vogliamo più essere; con l’approccio della cultura e della pratica della nonviolenza cominciamo a prospettare il nuovo che vogliamo costruire e la dimensione mondiale è la sola ipotesi su cui possiamo costruire questa nuova idea della politica come trasformazione. Anche qui la nonviolenza ci sembra non solo una prospettiva giusta ma anche l’unica in grado di poter prospettare un’alternativa credibile. Un esempio, nei decenni scorsi si pensava alla pace come risultato dell’equilibrio delle forze, una pace terribile, fondata sull’equilibrio del terrore, una pace per grande parte del pianeta apparente, perché infinite erano i conflitti locali in cui le superpotenze si misuravano per interposta persona, con milioni di vittime, specialmente nel sud del mondo, ma, dicevano, pur sempre una pace. Oggi le cose non sono più così.
(c) Fabio Corazzina /Archivio Mosaico di pace Nel momento in cui la potenza è una e ha sviluppato il massimo possibile della violenza immaginabile, la nonviolenza non è solo la scelta giusta, è la scelta necessaria. Quando in un solo giorno 110 milioni di persone, nel mondo, scendono contemporaneamente a manifestare contro la guerra vuol dire che c’è una realtà in campo del tutto nuova con cui occorre fare i conti. La guerra non è stata fermata e quindi abbiamo subito una sconfitta. Ma questo movimento non è rifluito né è rassegnato. Il nuovo movimento per la pace possiede un passo lungo e può quindi proporsi come l’alternativa alla guerra. Nella sua crescita, quantitativa e qualitativa c’è anche il bandolo per l’uscita dalla crisi della politica.

I governi ma anche buona parte dell'opinione pubblica mondiale non riescono a mettersi d’accordo su una definizione condivisa del termine “terrorista”, proprio perché non c'è accordo sul tema dell’uso della forza. Riconosce la legittimità dell’uso della violenza da parte di movimenti di liberazione? E se si, e con quali eventuali limiti?
La mia generazione si è formata sulla condivisione delle lotte dei movimenti di liberazione nazionali e delle guerre di liberazione contro il colonialismo. Ricordo ancora l’emozione provata di fronte al magnifico film di Gillo Pontecorvo “La battaglia di Algeri”. Le sequenze della donna algerina che si trucca per mimetizzarsi tra gli “occupanti”, la tensione per il passaggio ai posti di blocco e poi le esplosioni delle bombe nei luoghi pubblici della città frequentati dai francesi. C’era orrore per la guerra ma non per il gesto che quella ragazza andava a fare, o meglio, per noi “era costretta” a compiere. Non c’è dubbio che stavamo dalla sua parte e quasi tremavano con lei quando rischiava di essere scoperta prima di portare a termine la sua missione. Oggi non è più così. Non lo è per vari motivi. Le aspettative suscitate da quelle rivoluzioni hanno in gran parte tradito le aspirazioni e le speranze di quei popoli e spesso sono regredite. Non si presenta anche per quelle rivoluzioni un nodo che è nel rapporto tra mezzi e fini?
Ma non c’è solo questa analisi retrospettiva da fare. C’è qualcosa di più che riguarda l’oggi. La nonviolenza si pone anche qui come una prospettiva. Sarebbe quindi sbagliato compiere una correlazione semplicistica tra uso della forza e terrorismo e ancora più sbagliato sarebbe confondere il terrorismo con le cause che utilizza per affermarsi, specialmente nel mondo arabo.
La solidarietà a una causa non smette di essere valida anche se chi si batte per essa utilizza mezzi che noi consideriamo ingiusti. Semmai è anche compito nostro dimostrare che la scelta della nonviolenza è non solo auspicabile ma anche quella maggiormente efficace, oggi nel mondo globalizzato, per raggiungere gli obiettivi di liberazione. Per questo, guardiamo con grande interesse alle nuove esperienze di lotta che si sono affacciate in questi ultimi anni e a quanto esse insegnano di nuovo a tutti noi. La rivoluzione zapatista ha utilizzato le armi ma non una cultura armata anzi, esattamente il suo contrario, così grandi movimenti di massa, penso a molte esperienze specialmente nel continente indiano, di disobbedienza civile, alle lotte contadine.
La stessa resistenza palestinese, nel momento in cui è stata capace di proporre una proposta di pace, “due Stati per due popoli”, ha espresso questa carica di pacificazione attiva. La guerra e il terrorismo cercano di stravolgere e distruggere queste esperienze. La guerra fa un salto di qualità perché torna a presentarsi come ideologia, quella della dottrina Bush, della guerra infinita e indefinita, della guerra preventiva. Allo stesso tempo, il terrorismo è un progetto lucido che si sviluppa nella sfera autonoma della politica. L’uno e l’altro utilizzano il fondamentalismo come alimento: per questi motivi, la coppia guerra-terrorismo rischia di trascinare l’intera umanità in una guerra di civiltà.
Il terrorismo utilizza le contraddizioni determinate dai profondi squilibri e dalle situazioni di ingiustizia presenti ma non si propone di superarli; la guerra infinita viene presentata come risposta alla violenza del terrorismo ma l’uno e l’altro, in realtà, procedono secondo un proprio autonomo progetto. La guerra infinita è lo strumento con il quale la globalizzazione neoliberista mostra il suo volto duro e cerca di reagire alla crisi in cui si dibatte inasprendo il proprio sistema di dominio.
Il terrorismo vuole, a sua volta, affermarsi come progetto di dominio e, in questo

Tana De Zulueta
Nata il 4 ottobre 1951, vive a Roma da 25 anni. È sposata e ha due figli. Laureata in Archeologia e Antropologia, è stata corrispondente dall’Italia per il Sunday Times e in seguito per The Economist. Ha condotto, insieme a Barbato, il programma “Italiani” di Rai 3 ed è stata direttrice del telegiornale di Videomusic. Eletta al Senato nel gruppo Democratici di Sinistra – l’Ulivo, lo scorso mese di gennaio ha lasciato i DS per la posizione assunta dalla maggioranza del partito sulla guerra in Iraq. Attualmente è vicepresidente dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e membro della Commissione Esteri e della Commissione Bicamerale Antimafia, nella quale coordina il VI sottocomitato sulla criminalità internazionale operante in Italia, il traffico di droga, di armi e di esseri umani.
modo, si infiltra nei conflitti e cerca di permeare a sé i movimenti di lotta. L’uno e l’altro si alimentano dell’instabilità. Guerra e terrorismo vanno rifiutati non solo per i mezzi distruttivi che utilizzano ma per i fini che propongono, per i modelli sociali che vogliono imporre. Insomma, la solidarietà attiva nei confronti dei movimenti di liberazione non dipende solo dal fatto che questi usino o no la forza per raggiungere i propri risultati. Noi pensiamo, però, che la prospettiva della nonviolenza, vista come processo e come acquisizione progressiva, accumulo di esperienze e di pratiche innovative, rappresenti oggi la linea di azione più efficace in un mondo in cui il monopolio della violenza è detenuto dalla guerra e dal terrorismo. Il compito nostro è contribuire a questo processo. Qui c’è una grande responsabilità e si gioca una grande sfida per l’Europa.

Se il principio della nonviolenza diventa parte integrante dell’analisi e delle politiche di un partito come è il tuo non dovrebbe portare a un approccio diverso anche nei confronti della violenza della società, a partire dalla violenza sulle donne?
Dobbiamo molto alla cultura della differenza e, più in generale, al femminismo. È stata una vera rivoluzione culturale che ha modificato paradigmi e linguaggi anche della sinistra. Tutte le culture critiche, penso, oltre al femminismo, al pacifismo, all’ambientalismo hanno avuto la capacità di cogliere le contraddizioni determinate dallo sviluppo senza progresso delle società contemporanee, elaborare nuove categorie interpretative del mondo e intercettare nuove istanze. Un punto forte di queste analisi, in particolare riferito proprio al femminismo, è la critica di ogni forma di separatezza del sociale dal politico. La violenza che si produce è quella dell’esclusione sociale, delle nuove forme di precarietà, delle moderne forme di lavoro servile che quella che definiamo la rivoluzione restauratrice della globalizzazione neoliberista ha introdotto. L’insicurezza e la precarietà da fenomeni che potevano riguardare fasce sociali o settori marginali, per quanto in misura crescente, ora si fa condizione generale di esistenza. Anzi, questa precarizzazione dalle condizioni di produzione e riproduzione sociali si estende alla vita di relazione e addirittura interviene dentro la sfera più intima del vivente fino alle manipolazione genetica.
Un imbarbarimento della società, un’estensione della cultura del possesso e della sopraffazione che penetra nel profondo e che emerge fin dalla cronaca con l’aumento delle forme di violenza e in particolare, spesso fino all’uccisione, nei confronti delle donne. Eppure, contemporaneamente, emergono nuove forme di movimenti di massa che esprimono un bisogno forte di coesione sociale, quasi di identità. La grande lotta di Scanzano e le mille lotte delle vertenze locali, per ultimo basti vedere Terni, dimostrano come le comunità locali in quanto tali sviluppino una capacità di reazione, esprimano una voglia di comunità che è anche ricerca di relazioni altre rispetto al mercificazione del mercato. Anche qui, vediamo quanto di nuovo si muove nel profondo delle coscienze, nelle esperienze di base, nei movimenti di partecipazione, nel conflitto sociale e del lavoro.
Non si muovono queste esperienze, più o meno consapevolmente, con modalità di lotta, forme di relazioni interne, voglia di protagonismo, individuazione di obiettivi che potremmo definire radicalmente nonviolenti? E non esprimono, così, una esigenza di modificare anche i rapporti gerarchici e le relazioni interpersonali? Non chiedono, anche a noi, di modificare per esempio lo schema tradizionale del rapporto tra movimenti e politica? Ecco, qui è la frontiera cui guarda la nostra riflessione, la nostra ricerca, spero – anche se non sempre con coerenza adeguata – e la nostra azione.

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