POLITICA

Pace, tra realismo e nonviolenza

Il terrorismo, i rapporti con gli USA e i movimenti nonviolenti.
A colloquio con Francesco Rutelli.
Intervista di Nichi Vendola

Cosa rappresenta per te, in questo inizio di millennio, l’irruzione di quel nuovo protagonista planetario a cui diamo il nome di “terrorismo”? Che cosa c'è dietro e quale può essere la risposta più efficace per recidere le radici del fenomeno terroristico?
Il terrorismo è orrendo. È una forma di violenza indiscriminata, basata sulla paura che suscita in quanto colpisce vittime innocenti. E il terrorismo fondamentalista con motivazioni religiose lo è persino di più: pretende di piegare la fede religiosa verso motivazioni autodistruttive e distruttive, esaspera l’odio, abusa sostanzialmente dei valori di tolleranza sui quali anche l’Islam è fondato. Il terrorismo va combattuto, contrastato, prevenuto senza alcuna ambiguità.
Non dobbiamo sottovalutare, peraltro, che la crescita in larghe aree del mondo di un’avversione profonda contro l’America porta milioni di persone non a sostenere il terrorismo ma a simpatizzare con le sue azioni. Se le “democrazie occidentali” non recupereranno una capacità di parlare (con coraggio, apertura, richiamo a valori civili, traguardi di liberazione umana) alle grandi moltitudini senza speranza dei Paesi più poveri, avranno perduto le loro ragioni, e una buona parte del proprio futuro.

Che giudizio dai sulla dottrina della “guerra preventiva e permanente” che rischia di divenire l’asse fondamentale su cui ruoterà la geopolitica del futuro? Pensi che sia davvero una “guerra costituente”, cioè una forma specifica di nuovo dominio imperiale sul mondo intero?
(c) Fabio Corazzina/Archivio Mosaico di pace È un guasto gravissimo e un fallimento. Non dimentichiamo che alla base della scelta di guerra unilaterale in Iraq c’era l’asserita necessità di “prevenire” l’uso di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. Quelle armi non c’erano. La guerra c’è stata. E dunque quella dottrina ha mostrato al mondo non solo la propria illegittimità rispetto al diritto internazionale, ma la sua chiara strumentalità per fini di egemonia politica.

Il popolo iracheno ha il diritto oppure no di lottare contro ciò che considera una occupazione militare del proprio territorio da parte delle truppe anglo-americane? In Iraq vi è solo l’attività diuturna di gruppi terroristici, oppure siamo dinanzi al costituirsi di una vera e propria resistenza?
Non si può chiamare resistenza la guerriglia degli esponenti del vecchio regime di Saddam Hussein e di professionisti del terrore che li hanno affiancati. Anche per questo occorre accelerare la transizione, sotto l’egida delle Nazioni Unite, verso forme di autogoverno iracheno.

Come si può considerare la presenza delle Forze Armate italiane in Iraq: un contributo alla guerra di occupazione, oppure una “missione umanitaria”? E a prescindere dal carattere della missione, essa non contribuisce a svuotare di senso le Organizzazioni come l’Onu e l’idea stessa di un “diritto internazionale” che regola gli assetti mondiali?
Tutte e due le cose. È stata una partecipazione – sbagliata e non condivisibile – alla presenza di forze di occupazione. Ma anche il concorso ad affrontare problemi di stabilizzazione, sicurezza, riorganizzazione del Paese. Occorre tornare al più presto alla legalità internazionale perché i doveri e i rischi di una futura presenza multilaterale – anche italiana – abbiano il senso di concorrere a un leggibile disegno di stabilità, pace, a un processo verso la democrazia.

La pace può essere solo una nobile aspirazione della coscienza umana, oppure deve diventare un discrimine invalicabile, il primato assoluto dell’agire politico, l’orizzonte quotidiano della razionalità pubblica?
La pace è il traguardo di ogni responsabilità pubblica. Io rispetto e difendo anche l’altrui diritto di una personale posizione di “pacifismo assoluto”. Il compito della politica, tuttavia, è di costruire la pace attraverso la prevenzione e il governo dei conflitti, che esistono ed esisteranno nelle relazione umane. Compito di una politica orientata alla pace è cercare di limitare l’uso della forza a una “extrema ratio”, al fine di evitare maggiori violenze, maggiori sopraffazioni. Compito di un governo democratico è garantire che le istituzioni che dispongono della forza siano garanti della libertà e della convivenza civile.

La nonviolenza è un semplice codice etico, oppure uno strumento di critica radicale della violenza, a cominciare dalla violenza del potere costituito e dei suoi apparati? Si può essere nonviolenti la domenica e ordinariamente (magari legalmente) violenti nei giorni feriali? La nonviolenza non rappresenta forse una sfida aperta a ripensare e rifondare la nostra cultura politica e l’idea stessa della cittadinanza e della statualità?
Non mi piace, francamente, nessuna della definizioni contenute in questa

Nichi Vendola
Nato a Bari il 26 agosto 1958, è laureato in lettere e filosofia, giornalista e autore di diversi libri. È tra i promotori della Lila, Lega italiana Lotta all'Aids, e dell'ArciGay. Membro della segreteria nazionale della Fgci dal 1985 al 1988, nel 1990 entra a far parte del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano. Dopo lo scioglimento del Pci è tra i fondatori del Partito della Rifondazione Comunista e diviene membro della Direzione nazionale. Attualmente deputato, è membro della VIII Commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici e della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similari.
domanda. Ho trascorso buona parte della mia formazione politica a leggere e studiare Gandhi, Thoreau, ma anche Capitini e la nonviolenza cristiana. La nonviolenza non è un codice etico, né un’etichetta. Non è solo uno “strumento di critica radicale della violenza”. Credo che la nonviolenza sia una scelta di fondo della vita della persona che include mitezza e rispetto verso gli altri (troppi sedicenti nonviolenti muovono nella direzione opposta). Ed è anche un modo individuale e collettivo di agire nella lotta politica, che in quanto ansia di cambiamento è conflitto, non contemplazione. Come il frutto e l’albero che non possono essere disgiunti dal seme, come diceva Gandhi. Dunque, un orientamento politico culturale, una sfida civile, un’esperienza in cammino che cerca testimoni, riconosce difficilmente dei profeti, non tollera apostoli autoproclamati.

Cosa pensi del dibattito aperto da Fausto Bertinotti sul tema della nonviolenza? Si tratta solo di una cornice di radicalismo etico in cui comporre il quadro dell’alleanza con il centrosinistra? Oppure è una sfida che, leggendo criticamente la storia e la tradizione comunista, cerca di schiudere un sentiero – non più minato da ipoteche di violenza politica – di una alternativa di civiltà?
È un dibattito interessante e senz’altro stimolante. Anche perché a mio avviso l’ideologia comunista – che ha predicato il momento “salvifico” della rivoluzione – esige oggi un superamento radicale, una sconfessione nettissima proprio dal punto di vista di una cultura nonviolenta. Non mi riferisco all’aspirazione ugualitaria, ma piuttosto alla cultura di “egemonia” che è stata levatrice, con la violenza, di tante pagine disastrose della storia moderna. È ovvio che oggi (quasi) nessuno immagina la conquista del potere secondo i mezzi e le ideologie di un secolo fa. Ma se la nonviolenza poteva integrarsi con il comunitarismo, se ha trovato significato e radici in molte tradizioni dell’Europa cristiana, certo non poteva conciliarsi con il comunismo. Ci vuole molto più che una “lettura critica” della storia e della tradizione comunista; la nonviolenza politica, anche la più radicale, è stata del resto storicamente figlia del pensiero democratico occidentale, come ha spiegato un Norberto Bobbio assai poco conosciuto dalla cultura di sinistra. E come ci insegnò quell’avvocato formato a Londra che iniziò a sperimentare in Sudafrica le sue azioni nonviolente. Un uomo, ricordiamolo ancora, chiamato Gandhi.

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