ITALIA

La nonviolenza e la mafia

Assumere le contraddizioni storiche. Ricostruire luoghi e percorsi sociali e comunitari. Riconoscere il volto subdolo che le istituzioni spesso assumono.
Vincenzo Sanfilippo

Tra i maestri di nonviolenza conosciuti direttamente ho un particolare debito di riconoscenza nei confronti di Jean Goss. Quando, nel 1981 lo invitai a Palermo, avendo organizzato, per l'AGESCI un convegno sul tema “Nonviolenza, educazione, meridione” ero molto giovane. Al tavolo della presidenza mi era (c) www.peppinoimpastato.com sembrato giusto presentarlo come “una persona da anni impegnata nelle battaglie nonviolente e anti-militariste”. “Voglio subito rettificare qualcosa”, disse iniziando la sua relazione: “La nonviolence n'est pas anti-quelque chose. La nonviolence est pour le respect absolu de l'homme!”.
Quella rettifica fu per me una grande lezione di vita. La nonviolenza ci chiama a non abbandonare mai la speranza nella riconciliazione, nella ricostituzione dell'unità del genere umano. Per questo non si contrappone mai al nemico, ma mira alla sua coscienza. Per chi crede in Dio è forse la sfida più grande e affascinante. Dio, come dice Lanza del Vasto, è nell'unione di tutti quelli che si uniscono. La riconciliazione con chi ci ha voluto del male è la prova definitiva della Sua esistenza. La nonviolenza non è tattica. La nonviolenza è nella natura (nascosta) delle cose. Sta a noi svelarla.

Un sistema sociale
Quando, negli anni che seguirono quel convegno, la violenza mafiosa continuò a insanguinare il nostro Sud Italia fino alle stragi del '92, quelle parole risuonavano dentro di me. Ancora oggi mi chiedo che cosa dobbiamo fare di nonviolento per fare evolvere queste nostre regioni oggi dominate in maniera forse meno sanguinaria, ma non meno violenta, dalla mafia che continua a ricattare commercianti con il racket, a infiltrasi nelle amministrazioni pubbliche e negli appalti, a smerciare droga, a lucrare nei mercati finanziari, nei commerci di armi, con i rifiuti tossici che avvelenano la nostra ineguagliabile natura, togliendo risorse e scoraggiando qualunque idea di impresa onesta, qualunque idea di sviluppo centrato sul lavoro, sulle risorse naturali, sul rispetto dell'ambiente.
Un dominio ancor più pericoloso perché meno evidente e che continua ad avere il consenso di buona parte della popolazione. Possiamo avvicinarci al fenomeno mafioso secondo diverse prospettive.
Secondo una prima definizione, che ricavo da Umberto Santino, la mafia è “un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante ma non l'unica è Cosa Nostra, che agiscono all'interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalità finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale”. Nell'economia del nostro discorso dobbiamo necessariamente soffermarci su alcuni punti di questa definizione. È utile parlare di mafia come “organizzazione criminale” o come tipo di sistema sociale? E come si struttura il consenso sociale alla mafia?
Per affrontare queste questioni partiamo da alcune tracce che ci ha lasciato in eredità Giovanni Falcone: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.(...) La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano.(...) È necessario distruggere il mito della presunta nuova mafia, o meglio, dobbiamo convincerci che c'è sempre una nuova mafia pronta a soppiantare quella vecchia”.
Da un punto di vista sociologico queste tracce di G. Falcone ci fanno capire che la mafia non è solo organizzazione criminale ma è un sistema. Mi sono convinto che essa non solo è sistema, ma è sistema sociale, è il nostro sistema sociale. Viviamo in un sistema sociale mafioso. Questo cambio di visuale modifica necessariamente teoria e azione. Per comprendere la mafia è importante studiare le organizzazioni Cosa Nostra, Ndrangheta, Sacra Corona Unita... ma è anche importante analizzare le aree sociali che sono (o sono state) contigue ad esse e le loro relazioni di scambio. Anche se tali organizzazioni si trasformassero fino a perdere alcuni connotati che finora le hanno caratterizzate fortemente, ciò non significherebbe automaticamente la fine del sistema sociale mafioso.

Il pensare mafioso
Secondo un'altra prospettiva la mafia è la manifestazione di processi mentali quali si rendono visibili sotto forma di comportamenti che hanno conseguenze sociali, politiche, economiche. Questa seconda definizione è stata messa a punto recentemente da alcuni psicologi facenti capo al laboratorio di gruppo-analisi di Palermo. La prospettiva psicologica mette a fuoco alcuni elementi di costrizione nell'agire mafioso.
La domanda da cui parte questa riflessione è la seguente: può una cultura (o una sottocultura) trasmettersi fino al punto da plagiare gli individui, fino al punto da renderli incapaci di pensare che la cultura stessa possa essere modificata? Una risposta affermativa a questa domanda è gravida di importantissime conseguenze sia sul piano scientifico, sia sul piano della prassi per le azioni tendenti a superare il sistema mafioso. Provo a elencarne qualcuna.
Essere incapaci di pensare una realtà (per noi già esistente o desiderabile) significa essere incapaci di porre in essere comportamenti conseguenti. Ma essere incapaci di pensare una realtà non significa tuttavia che non si possa passare da uno stato di incapacità a uno di capacità. Le scienze umane in genere ci hanno abituato a leggere i comportamenti e la storia dell'uomo insieme come condizionati e condizionanti; sia il mondo interno che il mondo esterno all'individuo influenzano il suo comportamento; studiare quindi il comportamento umano con metodo scientifico significa riconoscerne, almeno in parte il carattere condizionato. Ma svelare la natura di questi vari condizionamenti, comprenderne almeno in parte il funzionamento, può favorire processi di liberazione, capaci cioè di fare acquisire nuove capacità di pensiero (o capacità di nuovi pensieri) uscendo da quella visione statica e gattopardesca della realtà nella quale ci siamo sentiti tante volte ingabbiati.
In questa prospettiva le scienze umane potrebbero accompagnare l'evoluzione dell'uomo, come singolo e come società, in un processo a spirale infinito dove l'acquisizione di consapevolezza di una schiavitù ci porta ad avere elementi per scoprirne di nuove, in un cammino verso quella “realtà liberata” di cui parlava A. Capitini.

Il problema è comunicare
Dal punto di vista nonviolento, per il quale, è fondamentale indirizzarsi alla coscienza del singolo, è d'altra parte fondamentale lavorare per ridurre tutti possibili fattori che assopiscono questo potenziale umano. Ogni scienza che si propone questo fine può dirsi nonviolenta. Possiamo quindi pensare a una pedagogia nonviolenta. Il che è quasi una tautologia, dal momento che Gandhi affermava che la nonviolenza è educazione. Una pedagogia nonviolenta deve pertanto interrogarsi su come toccare la coscienza del nostro prossimo.
http://danilo1970.interfree.it/bacheca.html Ci accorgeremo presto che il problema è comunicare, far sì che il messaggio di chi percepisce un limite raggiunga l'altro, in qualche misura lo arricchisca (tocchi tutto il suo essere) consentendogli, a sua volta, di comunicare qualcosa in grado di arricchire l'umanità. Ma è solo a partire dalla intelligibilità dei contenuti – che inevitabilmente si richiamano a una visione del mondo che li rende plausibili – che si può avere vera comunicazione e non mera trasmissione di messaggi, come ci ha insegnato Danilo Dolci. Detto in altri termini, non è assolutamente scontato che una proposta diventi intelligibile a misura della chiarezza della sua formulazione logica.
Ora, nel nostro caso parti colare, se l'altro appartiene a un'organizzazione mafiosa o ne assume la struttura di pensiero, di fatto adotta come codice generale di plausibilità, un’immagine del mondo, che come diversi studi hanno dimostrato, non concepisce un sistema sociale diverso dal sistema sociale mafioso. Secondo l'impostazione degli psicologi gruppo-analisti la famiglia mafiosa si fa trasmettitore di un particolare modo di pensare, che viene definito “pensare mafioso”, derivante con tutta probabilità da alcuni “dati” della cultura meridionale, in particolare dal “sentimento dell'attesa” e dalla “insicurezza” che hanno pesato e pesano nella storia della Sicilia.
Il pensare mafioso origina quindi dal tema dell'insicurezza. Questo dato viene trasmesso in modo così pervasivo da generare nell'individuo un inconscio bisogno di rassicurazione che viene ricercata nella famiglia e in quelle organizzazioni che inconsciamente sono create o ricondotte a svolgere la funzione di appagamento di questo bisogno. Il pensare mafioso attribuisce quindi all'istituzione familiare il significato di solo “noi” possibile e pertanto, per evitare il disagio di relazionarsi con un noi sconosciuto che non ha lo stesso significato rassicurante del noi familiare, si è portati a cercare o creare strutture organizzative che assomigliano a quella familiare. E la cultura delle varie organizzazioni mafiose risponde (o può rispondere anche) a un bisogno di questo tipo. Queste riflessioni evidenziano efficacemente la complessità del fenomeno e mettono in luce le difficoltà legate alla comunicazione interna al sistema sociale mafioso. Tutto ciò può aiutare a capire se e come è possibile rintracciare, in questa situazione l'uomo e la sua coscienza.

Il contributo della nonviolenza
Schematicamente vorrei qui tracciare alcuni temi che possono guidare un percorso che già all'indomani delle stragi la nostra rivista e l'area nonviolenta meridionale avevano iniziato e del quale forse abbiamo un po' perso le tracce. Esso ruota intorno a tre punti.
Il primo, il conflitto come disturbo di una relazione organica. Riprendendo Jean Goss: se il genere umano è unità, il fine che dovrà guidare ogni nostra azione sarà la ri-costruzione di tutti i rapporti (anche quelli tra “vittime” e “carnefici”). Se tutte le parti sono interconnesse ci sarà anche una responsabilità diffusa (tutti in qualche modo siamo complici...).
Il secondo punto, le caratteristiche principali della risoluzione nonviolenta: come coniugarle nel contesto meridionale?
Infine, quali conflitti, quali soggetti e quali azioni. Da dove cominciare, ri-cominciare, continuare? Assunto il modello di sistema sociale mafioso, il primo passo da compiere è quello di individuare i conflitti latenti e manifesti dentro questo sistema. Senza perdere il quadro d'insieme, è necessario individuare sotto-campi su cui è pensabile impostare delle azioni nonviolente di risoluzione.
A tal fine abbiamo individuato alcune situazioni conflittuali che, al momento, sono da considerare un'esemplificazione più che una ricerca analitica dei possibili campi di intervento:
• L'estorsione (estorti/estorsori – tentativi di costruzione di nuova imprenditoria/dissuasioni da parte del racket e della burocrazia locale)
•I pentiti (pentiti/familiari – mafiosi pentiti/mafiosi non pentiti)
• La dissociazione di aree di “contiguità affettiva” (familiari di mafiosi / mafiosi/organizzazione mafiosa)
•Parenti di vittime di mafia / mafiosi /forze dello Stato
•Funzionari dello Stato (Funzionari onesti/funzionari collusi/politici mafiosi)
Alla luce di quanto detto finora, mi sembra infine che vada ri-calibrato il tema dell'educazione alla legalità al quale abbiamo fatto abbondantemente ricorso in questi anni.
Nell'ottica della nonviolenza: l'educazione al rispetto delle leggi giuste e allo Stato va di pari passo con l'educazione alla obiezione agli Stati e alle leggi ritenute in coscienza ingiusti.

Sul “pensare mafioso”
I. Fiore, Le radici inconsce dello psichismo mafioso, Angeli, Milano, 1997;
F. Di Maria (a cura di) Il segreto e il dogma. Percorsi per capire la comunità mafiosa, Angeli, Milano, 1998;
G. Lo Verso, La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Angeli, Milano, 1998;
G. Lo Verso G. Lo Coco S. Mistretta G. Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, Angeli, Milano, 1999;
G. Lo Verso G. Lo Coco (a cura di) La psiche mafiosa, Angeli, Milano, 2003
Dal punto di vista psicologico e pedagogico, il registro dell'educazione alla legalità appare inadeguato a raggiungere pedagogicamente i soggetti inseriti (con vari livelli di consenso) nel sistema mafioso.
Non voglio dire che non dobbiamo educare e educarci alla legalità. Ma assumere le contraddizioni storiche che questo concetto comporta. Forse dobbiamo ricostruire società, comunità, prima che legalità e dobbiamo riconoscere il volto subdolo che le stesse istituzioni spesso assumono.

I percorsi possibili
Operativamente, penso che un pensiero e un'azione di superamento sociale del sistema mafioso impostato sulla nonviolenza debbano oggi camminare su cinque sentieri.
1. Creare luoghi/comunità di ricostruzione e sostegno alle esperienze personali di fuoriuscita (Pensare percorsi di fuoriuscita che possano essere compresi e sperimentati dai soggetti coinvolti, percorsi che assumano senso nelle esperienze individuali, senza trascurare i legami affettivi e relazionali intrinseci alla cultura acquisita nel processo di socializzazione. Luoghi tra la famiglia e lo Stato, per ricostruire delle identità individuali e di gruppo). Diverse possono essere le metodologie di gruppo attraverso cui persone con un passato di coinvolgimento in strutture mafiose possano rivisitare la propria vita, in una prospettiva non punitiva ma, in senso lato, terapeutica. Ciò può avvenire sia in ambito religioso che istituzionale.
2. Continuare l'elaborazione teorica interdisciplinare su mafia e nonviolenza.
3. Sostenere e creare punti di riferimento per le esperienze di “resistenza/ obiezione di coscienza” dentro la pubblica amministrazione, la scuola, la sanità, le carceri.
4. Continuare la sensibilizzazione dei giovani sul tema mafia e nonviolenza attraverso campi e progetti di servizio civile.
5. Approfondire il nesso mafia-legalità-politica-nonviolenza.
Su questi temi penso che la rivista Mosaico di Pace possa costituire un utile luogo di incontro e di confronto.

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