Un Paese in bilico
Il Sud Sudan è ancora lontano dal garantire pace, sicurezza e diritti ai cittadini.
Da cinque mesi la lotta per il potere tra il presidente Salva Kiir di etnia dinka e il suo ex-vice Riack Machar di etnia nuer, accusato di aver ordito un colpo di stato, sta trascinando in uno scontro violento anche i gruppi nuer e dinka, i più rilevanti numericamente nel Paese. Ne sono derivate una serie di stragi che fanno parte di una cronaca di orrori seminata in una fascia di territorio che attraversa il nord-est e sud del Paese. Città come Bor e Bentiu dello stato Jonglei e Unity, cuore petrolifero del Sud Sudan, sono passate più volte di mano tra i soldati di Kir e di Machar e sono ridotte in macerie. A Bor, si è perfino sparato sugli sfollati nuer nel compound dell’Onu. A Bentiu, i soldati di Machar, una volta ripreso il controllo della città, hanno ucciso a sangue freddo centinaia di civili inermi nell’ospedale e nella moschea mentre tanti altri sono stati feriti; lì, sono stati poi abbandonati senza pietà, come ha accertato un team di Medici Senza Frontiere recatosi sul posto.
Questi e altri orrendi fatti dimostrano che la situazione è entrata in una spirale di attacchi e vendette senza freno e limiti. Come se non bastasse, si ostacola anche l’arrivo degli aiuti umanitari, così, la fame viene usata come arma da guerra insieme a quella dello scontro etnico, paragonabili entrambe ad armi di distruzione di massa.
Allarme genocidio
Il Segretario di Stato americano Kerry ha detto alla stampa che ci sono indicatori estremamente preoccupanti di violenze etniche tribali che, se dovessero continuare presenterebbero una seria sfida alla comunità internazionale configurandosi come genocidio. Toby Lanzer, responsabile per le operazioni umanitarie Onu in Sud Sudan, ha sottolineato la mancanza di una forza internazionale in grado di fermare la guerra e il deteriorasi della situazione. Il segretario Onu Ban Ki-Moon ha promesso di fare il possibile perché non si ripeta quanto è successo in Rwanda nel 1994. Navi Pillay, alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani in missione a Juba, durante una conferenza stampa ha dichiarato: “Il mix micidiale e continuo di recriminazione, incitamento all’odio e a uccidere lanciati negli ultimi mesi ha raggiunto un punto di ebollizione preoccupante che non è però percepito né dai leader politici del Sud Sudan, né dalla comunità internazionale”. Purtroppo, tutto quello che ho visto e sentito in questa missione rafforza l’opinione che i leader del Paese, anziché guidare la loro giovane nazione povera e instabile verso una maggiore prosperità, hanno intrapreso una lotta per il potere personale che ha portato il popolo sull’orlo della catastrofe. La fame e la malnutrizione diffusa, inflitta a centinaia di migliaia di persone a causa della incapacità dei leader di risolvere il loro conflitto politico in modo pacifico, non sembra li riguardi da vicino. Se in un futuro molto prossimo non vi sarà alcun accordo di pace, non vi sarà assunzione di responsabilità, spazio per ricostruire la fiducia e promuovere la riconciliazione, se non vi saranno fondi sufficienti per far fronte alla catastrofe umanitaria incombente… allora provo dei brividi nel pensare alla sorte del Sud Sudan! Dopo tanti decenni di conflitti e di abbandono economico la popolazione merita molto di più, soprattutto dai suoi capi, ma anche dalla comunità internazionale che è lenta ad agire. Per fare solo un esempio: nel mese di dicembre il Consiglio di Sicurezza ha deciso che il numero dei peacekeepers UNMISS doveva essere aumentato da 7.700 a 13.200 unità, ma i Paesi che contribuiscono non hanno ancora fornito circa due terzi delle truppe supplementari di cui c’è disperatamente bisogno”. Mentre la stampa diffondeva questa denuncia, a Juba, gli sfollati nuer del campo Onu chiedevano di essere trasferiti nei Paesi vicini per paura di essere massacrati dai soldati governativi e chiedevano l’adozione di sanzioni forti per impedire l’uso dei proventi del petrolio per uccidere i civili.
La situazione umanitaria
Secondo l’Onu, entrambe le parti in lotta hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo cinque mesi di scontri si contano 1,2 milioni di sfollati, di cui quasi 300 mila fuggiti nei Paesi circostanti e 10 mila persone uccise. Sarebbero 5 milioni circa i civili bisognosi di assistenza umanitaria e il numero è destinato a salire. L’Unicef riferisce di oltre 9.000 bambini soldato, di 32 scuole occupate dai militari, di oltre 20 attacchi contro centri sanitari: unici presidi sociali per tanta povera gente! A ciò va aggiunto l’incalcolabile numero di rapimenti e di stupri di donne e ragazze.
Gli appelli
Le organizzazioni per i diritti umani e la pace hanno alzato le loro voci in modo forte e corale. Pur tra tanta disperazione, la rete di Enough Project, organizzazione impegnata a prevenire/fermare genocidi, ha osato sostenere che c’è ancora qualche speranza di salvare il Paese: bisogna però fermare subito la guerra, dare sanzioni a chi ostacola la pace, investigare a tutto campo sui crimini compiuti, dare immediata sicurezza e assistenza alla popolazione. A tal fine, Enough Projetct ha sollecitato la comunità internazionale a intraprendere uno sforzo diplomatico eccezionale da porre sotto l’egida di figure di prestigio oltre che degli Stati influenti nell’area.
Pax Christi International subito dopo i primi scontri di dicembre, insieme a sedici organizzazioni di società civile, ha chiesto all’“African Union Peace and Security Concil” di istituire una commissione di inchiesta sui crimini avvenuti e di consegnare alla giustizia i responsabili. Poiché l’avvio di questa Commissione andava a rilento e si rischiava che le prove dei crimini scomparissero, Pax Christi e altre trenta organizzazioni si appellavano all’“African Commission on Human and Peoples’ Rights” con una lettera aperta sottolineando che: “La richiesta di verità e giustizia in Sud Sudan è travolgente e viene direttamente dalle vittime e dalla società civile. Il loro dolore è molto radicato e domanda che si documentino in modo indipendente e imparziale le violenze perpetrate. È ora di consegnare i colpevoli alla giustizia per dare speranza ai sopravvissuti e per scoraggiare il perpetuarsi delle vendette. Bisogna evitare una situazione in cui i politici si stringono le mani e si concedono reciprocamente l’amnistia aspettando nel frattempo che le comunità riprendano la loro vita come se niente fosse successo”.
Lo scorso aprile, Pax Christi insieme al network sud sudanese impegnato contro la diffusione delle armi leggere nel Paese, ha incalzato il Tavolo della trattativa Igad invitandolo a spingere le parti opposte alla tregua per poi poter aprire un ampio dialogo nazionale sulle vere cause che stanno all’origine del disastro che ha travolto il Paese, un dialogo che porti a una pace solida.
La stagione delle piogge
Con l’inizio della stagione delle piogge gli sfollati sono costretti a vivere accampati in mezzo al fango e all’umido. Non ci saranno cibo, né medicine e moltissime persone potrebbero morire. Alle porte di una tragedia umanitaria di vaste proporzioni, lo sforzo diplomatico si è particolarmente intensificato e ha visto l’intervento di leader di alto profilo internazionale. Ciò ha portato i due rivali Kiir e Machar a piegarsi e a sottoscrivere il 9 maggio ad Addis Abeba una tregua. Sarebbe la seconda, da gennaio a ora!
Sulla carta gli impegni presi sono chiari, sia dal punto di vista umanitario che politico. Cessare i combattimenti entro 24 ore e consentire il conseguente monitoraggio; garantire corridoi umanitari e collaborare con l’Onu nel distribuire gli aiuti; negoziare un governo di transizione di unità nazionale; avviare un processo di pace inclusivo di tutte le componenti politiche e civili del Paese. Sarà però il reale andamento della situazione nel tempo a dimostrare l’effettiva volontà di pace sottesa a questo secondo accordo. Che non può permettersi di essere un accordo-farsa davanti agli occhi di milioni di persone a cui è stata tolta la dignità di esseri umani e davanti a un Paese che, a causa delle sue risorse petrolifere, rischia di diventare un campo di battaglia per gli interessi regionali e internazionali.