Cosa ci sarà da ridere?
Non è un caso che nelle prime pagine del romanzo Il nome della rosa (ambientato nel 1327, soglia acerba di quella modernità di cui noi abitiamo la decadente vecchiaia….) il riso sia al centro di una dottissima e accesa discussione tra il francescano Guglielmo da Baskerville e il venerabile Jorge. A Guglielmo, che gli ricorda i martiri cristiani che si erano serviti di facezie per ridicolizzare i nemici delle fede – come san Mauro che, davanti al capo dei pagani che l’avevano messo nell’acqua bollente, si lamentò che il bagno fosse troppo freddo, così lo stolto ci mise una mano dentro per controllare e si ustionò – l’anziano benedettino replica irato: “Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia”.
Il francescano gli fa allora gentilmente notare che le scimmie non ridono e che il riso è proprio dell’uomo, segno della sua razionalità e quindi anche della sua capacità di mettere in discussione le verità più accreditate. E questo il venerabile lo sapeva quando invitava i suoi monaci ad astenersi da una pericolosa e destabilizzante fonte di dubbio perché chi “ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo combatte”. Eppure nella sua strenua difesa del riso, il saggio Guglielmo evidenziava anche le virtù terapeutiche della risata, da lui definita “una buona medicina per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia”. Il punto centrale (almeno secondo il romanzo) sta nel fatto che se è possibile ridere di tutto – come affermato nella Poetica di Aristotele – è possibile allora ridere anche di Dio.
Homo ridens
Ma è possibile ridere di Dio? E di noi stessi? Della vita e delle vite? Ma poi, cosa ci sarà mai da ridere… Nella storia dell’esperienza cristiana, come in quella della cultura europea tutta, l’ambivalenza di fronte al riso, all’allegria, all’umorismo è costante e, come nel romanzo, le due anime, l’una lieve e lieta e l’altra triste e greve, vanno riconosciute come compresenti, apparentemente più legate ai profili psicologici delle persone che non a riflessioni teologiche o filosofiche.
Ha ragione il sociologo Peter L. Berger, autore di Homo ridens, quando dice che alcune religioni hanno “un senso dell’umorismo più spiccato di altre” e che “certi dèi ridono più di altri”. Si pensi all’Estremo Oriente, dove il sorriso di Buddha contagia schiere di monaci Zen e dove i saggi taoisti – aggiunge Berger – “sembrano trovarsi quasi costantemente in preda a un’allegria irrefrenabile”. Così anche gli dèi greci, che coinvolgevano nel loro riso gli adepti di vari culti misterici. Le grandi religioni monoteistiche, invece, sembrano allergiche al riso. Si ride poco o per nulla nei loro sacri testi. E la carenza di allegria si traduce spesso in sospiri, lamentazioni, tormenti. Insomma, in una sottolineatura del lato tragico della vita, a scapito degli elementi giocosi e gioiosi. E in una diffidenza profonda verso lo scoppio di riso che sembra far esplodere e relativizzare la realtà, che crea una distanza e sembra spezzare le regole della serietà di ciò che si fa calcolo, legge, confine.
Una storiella – di quelle che gli Ebrei della diaspora amano raccontare – offre una chiave psicologica o psicanalitica dell’ambivalente rapporto col riso (e con Dio): “Non avrai altro Dio all’infuori di me”, tuona il Padreterno. E Mosè: “Sì, certo. Chi mai potrebbe permettersi un altro così?”. E sappiamo tutti bene che l’humor ebraico, dai chassidim a Woody Allen e a Moni Ovadia, ha una lunga storia, è quasi diventato un genere letterario, uno stereotipo che attraversa le tragedie e il lato oscuro della storia.
Al Salmo 2, versetto 4 leggiamo che “ride colui che sta nei cieli”; certo, sono le beffe di Dio verso i malvagi, lo scherno del potente: è quella parte del riso che non nasce dal gioco e dalla leggerezza, ma piuttosto dallo sberleffo e dal sarcasmo. Ma troviamo nella Bibbia anche il riso di Sara (Gen 18,12) all’annuncio dell’inattesa e insperata gravidanza in vecchiaia, e il figlio dunque si chiamerà Isacco, che significa “lui ha riso”, riso di donna, di diffidenza e di imbarazzo, riso che sta a metà tra incredulità e speranza. Troviamo anche al Salmo 126, al versetto 2, il riso che è figlio della libertà, dell’allegria e del raccolto copioso, quello che è il dono ricevuto, ancora una volta insperato e immeritato.
Anche nella Bibbia, dunque, come nella vita, troviamo l’uno e l’altro, pianto e riso, scherno e allegria: dunque la questione non è tanto che cosa le religioni (e il cristianesimo in particolare) dicono (e fanno…) con il ridere, ma piuttosto la vera domanda è “cosa ci sarà mai da ridere?”.
Davvero la nostra vita avrebbe qualcosa che, insperato e immeritato, ci raggiunge come un dono e fa dilatare i confini del costruito, del delimitato, del definito, così che speranza, timore, meraviglia, allegria, leggerezza e gioco si mescolino al punto giusto fino a esprimersi in una risata?
La vita è bella
Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi, ci dicevano da bambini, quasi a ricordarci che la vita è una cosa troppo seria, troppo grave e problematica e che solo incoscienza o poca intelligenza possono trovare qualcosa da ridere nelle vite così come sono. Eppure… forse servirebbe una pedagogia del riso (e del sorriso…) per insegnarci di nuovo che il contrario della serietà non è il riso, ma piuttosto l’irresponsabilità e che la leggerezza e il rovesciamento dei punti di vista, un po’ di dissacrazione e un po’ di ironia aiutano a vivere proprio quando la situazione si fa grave. Tutti abbiamo amato il film La vita è bella, che ci ha narrato una delle tragedie del secolo breve come un gioco negli occhi di un bambino…
Ma c’è di più ancora: il riso ci conduce a un oltre, a un al di là di noi e della realtà che non ci aliena, che non cancella ciò che è, ma non se ne fa schiacciare; il riso ci libera, perché spezza la logica calcolatrice del potere e dell’avere, accetta la povertà dello stupore e del ricevuto, si fa stupire guardando senza catturare. Il riso è davvero in questo divino…
Così vorremmo concludere con un bel testo di Piero Pisarra che ci mette di fronte al riso che abbonda sulla bocca dei santi: “Ma la novità radicale del cristianesimo, il paradosso o la scandalo è che Dio stesso si fa ‘risibile’, subisce gli oltraggi e gli scherni, fino alla morte in croce. È il mondo alla rovescia delle Beatitudini (“Beati voi che ora piangete, perché riderete”, Luca 6, 21). È la logica sconvolgente del Vangelo, di cui un artista come Georges Rouault propone un’efficace traduzione visiva nel dipinto del Cristo clown o nella serie del Miserere. Questo Dio debole, inerme, coronato di spine, è la contestazione, come diceva Sergio Quinzio, di ogni “ontologia forte”, di ogni pretesa totalitaria, da parte di qualsiasi potere, mondano o religioso, e di tutti i nemici del riso. La croce disarma i tiranni, svuota di senso gli integrismi e i fondamentalismi. È scandalo e follia […] “L’umorismo ci conduce nel vestibolo del tempio, ma il riso deve cessare nel sancta sanctorum”, scriveva il teologo protestante Reinhold Niebuhr. Che è come dire: di fronte all’Altissimo conviene il silenzio e la lode. Ma forse è lecita un’altra risposta, quella di santi e mistici che non hanno mai smarrito il dono dell’allegria: si può e si deve ridere delle nostre immagini di Dio, dei nostri idoli, si può ridere con Dio. E il riso umano sarà l’eco del riso di Dio.