Tra sfruttamento e violenza
E non solo là, purtroppo.
Rahul (il nome è di fantasia) è uno dei circa 1.400.000 lavoratori migranti residenti in Qatar. Provengono quasi tutti dall’Asia meridionale e sudorientale (lui stesso è dell’India), in buona parte arrivati negli ultimi anni a causa dell’enorme crescita del settore delle costruzioni, legata all’organizzazione dei campionati mondiali di calcio del 2022.
Una storia come tante
Giunto nel 2012 in un Pae-se di cui non conosceva la lingua, a 2000 chilometri da casa, Rahul è entrato in un incubo. A Ras Laffan, a meno di un’ora di macchina dalla capitale Doha, sorge un modernissimo centro di formazione, inaugurato in pompa magna dal primo ministro del Qatar due anni fa. All’interno del Ras Laffan Emergency and Safety College, ci sono un auditorium di 120 posti, varie sale convegni, un ristorante per 300 coperti e uno spazio per le esibizioni con tanto di palco per i Vip.
Le moderne forme di schiavitù prendono nomi diversi, hanno tutte un comune denominatore: si tratta di costrizione al lavoro di esseri umani che sono diventati in qualche modo “proprietà” di un’altra persona.
Gli schiavi fanno sempre parte dei settori più poveri e vulnerabili della società. Si tratta in genere di appartenenti a gruppi con uno status sociale inferiore, a minoranze etniche o religiose, a popolazioni indigene o a gruppi nomadi, molto spesso donne e bambini. Essi, però, non diventano schiavi a causa della loro appartenenza, ma è questa che li predispone alla povertà e allo sfruttamento e quindi alla schiavitù.
In passato il proprietario possedeva “legalmente” gli schiavi. Ora gli schiavi, anche se sono resi e mantenuti tali sotto la minaccia costante della violenza e spesso fisicamente imprigionati, non sono “proprietà legale” di nessuno, ma sono costretti a lavorare per qualcuno senza compenso fino allo sfinimento. Sono schiavi “usa e getta”: costano poco, ce ne sono in abbondanza e, quando non “funzionano” più, si abbandonano a se stessi. Altri li sostituiranno.
È un fenomeno sommerso: vietato, ma tollerato e possibile per la connivenza delle istituzioni. Incerte le stime: si va da qualche decina a qualche centinaia di milioni. Soprattutto bambini.
Anche se fosse stato libero di prendere il primo aereo, Rahul non avrebbe avuto soldi sufficienti per comprare il biglietto. Senza stipendio ormai da mesi e con l’ansia dei debiti contratti in India per pagarsi in viaggio in Qatar, ha iniziato a pensare al suicidio. Molti ex colleghi di Rahul, nel frattempo, erano stati arrestati perché Kranz Engineering, che in teoria avrebbe dovuto occuparsi della loro regolarizzazione, non lo aveva fatto. Dunque, adescati, sfruttati e “clandestini”. Nell’aprile 2013, Rahul ha scritto ad Amnesty International: “Vi mando questa mail dopo tanto dolore e tanti tentativi vani… Mi sono rivolto al tribunale del lavoro, all’ambasciata dell’India, all’Alta corte, al ministero dell’Interno, al Comitato nazionale dei Diritti Umani ma non mi ha risposto nessuno. Non ricevo gli arretrati da nove mesi e cinque giorni fa ho finito i soldi per comprare da mangiare”.
Amnesty International ha sollecitato il Comitato nazionale dei Diritti Umani, che a sua volta ha sollecitato il ministero dell’Interno e nel maggio 2013 Rahul ha ottenuto il permesso di lasciare il Qatar, non prima di essere costretto a firmare una dichiarazione falsa, e cioè che aveva ricevuto i nove mesi di paga dovuti. A luglio, un anno dopo la fine del versamento degli stipendi, gli ultimi tre disperati operai della Krantz Engineering sono riusciti a partire.
Lavoratori
Fine dell’incubo? No. Rahul è tornato in Qatar. Non ha altro modo per ripagare i debiti accumulati in India. Ha trovato lavoro, sempre nel settore delle costruzioni, e spera che stavolta andrà diversamente.
Come lui, lo sperano centinaia di migliaia di lavoratori migranti, vittime di un’ampia serie di abusi nei confronti dei lavoratori migranti, tra cui il mancato pagamento dei salari, condizioni durissime e pericolose di lavoro e situazioni alloggiative sconcertanti.
I ricercatori di Amnesty International hanno visitato varie volte il Qatar, incontrando decine di lavoratori intrappolati senza via d’uscita, poiché i loro datori di lavoro gli stavano impedendo da mesi di lasciare il Paese. Le tutele di legge per i lavoratori migranti sono inadeguate e vengono comunque aggirate regolarmente da molti datori di lavoro. In più, c’è il sistema dello sponsor (“fafala”) che impedisce ai lavoratori migranti di lasciare il Paese o di cambiare impiego senza il permesso del loro datore di lavoro.
Alcuni lavoratori hanno dichiarato di vivere nella costante paura di perdere tutto, di essere minacciati di multe, di espulsione o di decurtazione del salario se non si presentano al lavoro, anche quando non vengono pagati. Di fronte a debiti crescenti e impossibilitati a sostenere economicamente le famiglie a casa, molti lavoratori migranti maturano gravi disturbi psicologici e in alcuni casi arrivano sull’orlo del suicidio.
Molti lavoratori si sono lamentati delle cattive condizioni di salute e a proposito degli standard di sicurezza, denunciando in alcuni casi la mancata fornitura dei caschi protettivi. Un rappresentante del principale ospedale della capitale Doha ha dichiarato nel corso dell’anno che, nel 2012, oltre 1000 persone erano state ricoverate nel reparto traumatologico dopo essere cadute dalle impalcature. Il 10 per cento dei ricoverati era diventato disabile e il tasso di mortalità era definito “significativo”.
I ricercatori di Amnesty International hanno anche trovato lavoratori migranti in alloggi squallidi e sovraffollati, senza aria condizionata, circondati da rifiuti e da fosse biologiche scoperte. Alcuni campi erano privi di corrente elettrica e molti uomini vivevano senza acqua potabile.
Nonostante tutto…
Dopo lo scandalo internazionale causato dalle inchieste giornalistiche e dai rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani, il governo del Qatar ha incaricato lo studio legale DLA Piper di indagare sulle denunce di abusi ai danni dei lavoratori migranti. Nel maggio di quest’anno, DLA Piper ha presentato al governo un’ampia relazione, in cui si criticava il sistema dello sponsor e veniva esposta una serie di raccomandazioni. A seguito di questa relazione, il governo ha annunciato una serie di riforme, comprese la modifica al sistema dello sponsor e alle norme sul permesso d’uscita e l’abolizione della legge che impedisce al lavoratori di tornare nel Paese nei due anni successivi alla fine del contratto. È intervenuto anche il capo di stato, l’emiro al-Thani, esprimendo rammarico per la situazione dei lavoratori migranti e promettendo un mondiale indimenticabile.
Secondo Amnesty International, molte delle riforme annunciate non hanno avuto seguito e, in ogni caso, non hanno affrontato le cause di fondo che contribuiscono al massiccio livello di violazioni dei diritti umani. È risultata inadeguata anche l’azione del governo per rimuovere i principali ostacoli all’accesso alla giustizia per i lavoratori migranti e per risolvere i problemi legati alla salute e alla sicurezza nel settore delle costruzioni. Nell’ambito della riforma complessiva necessaria per rendere il sistema dello sponsor e le leggi sul lavoro in linea con gli obblighi internazionali sui diritti umani, Amnesty International chiede al Qatar di prendere una serie di misure tra cui: l’abolizione del permesso d’uscita, in modo che non susciti ambiguità; l’avvio di un’inchiesta indipendente sulle cause delle morti dei lavoratori migranti; l’annullamento delle esorbitanti spese legali richieste ai lavoratori migranti per fare causa ai datori di lavoro; la pubblicazione dei nomi dei reclutatori e dei datori di lavoro che sfruttano i lavoratori migranti; l’allargamento alle lavoratrici domestiche della protezione legale di cui beneficiano altri lavoratori. Già, perché accanto allo sfruttamento degli uomini, c’è quello atroce delle lavoratrici domestiche migranti.
In Qatar sono impiegate almeno 84.000 lavoratrici domestiche straniere, in buona parte provenienti dall’Asia meridionale e sud-orientale. Molte di esse vengono assunte con false promesse circa il salario e le condizioni di lavoro, sono costrette a seguire orari di lavoro massacranti (anche 100 ore alla settimana, senza giorno di riposo) e vengono sottoposte a violenza estrema: prese a schiaffi, tirate per i capelli, colpite con le dita negli occhi, prese a calci e spinte per le scale, stuprate. Questo accade in uno dei Paesi più ricchi del mondo, uno di quelli che dovrebbe dare l’esempio. Lo dà, ma nel modo peggiore.