Un’Europa diversa, un’Onu rinnovata
Senza dubbio la politica estera italiana ha vissuto un significativo cambiamento negli ultimi tre anni. Mentre l’attenzione generale si è focalizzata principalmente sulle gravi vicende prima politiche e poi militari in Iraq e il ruolo italiano in queste, lontano dalle prime pagine rimane il ruolo dell’Italia all’interno delle istituzioni economiche, finanziarie e commerciali internazionali che promuovono l’attuale processo di globalizzazione. Nonostante una maggiore continuità con il passato, anche su questo versante emergono dei cambiamenti che potrebbero essere cruciali nel delicato passaggio economico a livello internazionale. Prima di valutare questi cambiamenti della politica estera italiana è necessario, quindi, considerare i diversi contesti internazionale, europeo e italiano che stanno caratterizzando l’attuale fase di instabilità che noi tutti percepiamo.
Nuovi scenari
Il fallimento del vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio nota come Wto, dello scorso settembre a Cancun segna la fine di un ciclo ventennale delle politiche neoliberiste classiche originate con le prime crisi del debito nei Paesi in Via di Sviluppo. Ci troviamo di fronte a una crisi di processo dell’agenda neoliberista, ma non ancora di sostanza, e a una “rinascita politica” del Sud del mondo, almeno di quelle grandi economie emergenti che si affermano sulla scena internazionale come il quadrilatero del “grande sud” (Brasile, Sud Africa, India e Cina) contrapposto a quello del Nord che ha governato di fatto fino a oggi la globalizzazione (Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone).
L’agenda dello sviluppo è tornata pienamente politica e oramai si può parlare anche economicamente di un nuova classifica reale del G8, se si pesano i prodotti interni lordi dei vari Paesi rispetto al potere di acquisto delle rispettive monete nazionali: Usa, Cina, Germania, Giappone, Francia, India, Regno Unito, Canada. Sarebbe esclusa l’Italia, soltanto nona, seguita a ruota dall’incalzante Brasile di Lula. A livello europeo, anche se a breve si trovasse il compromesso sulla bozza di Costituzione, si profila un’Unione a più velocità, dove a un nucleo ristretto anglo-franco-tedesco si affiancherebbero di volta in volta gli altri Paesi grandi, tra cui l’Italia, e non.
Ci vorrà parecchio tempo per risanare la ferita nell’Europa della guerra irachena, mentre le prospettive economiche di lungo termine per il vecchio continente prefigurano uno scenario in cui i Paesi dell’Unione Europea conteranno sempre meno dal 18 per cento del PIL globale oggi a soltanto il 10 per cento al 2030 – e si rintaneranno sempre più nell’Unione (80 per cento del commercio già oggi è interno) sotto lo scudo finanziario protettivo dell’Euro. Insomma, siamo di fronte a una prospettiva di diventare una “Svizzera” su scala continentale molto isolata dal resto del mondo, con diversi scontri politici interni, e con le frontiere pericolosamente sempre più chiuse. Infine, il livello italiano con un Paese che vive decisamente un declino economico senza precedenti. La grande industria è ormai un ricordo del passato e gli stessi settori simbolo del tricolore nel mondo, come l’agro industria, sono stati progressivamente acquistati da multinazionali straniere. Ancora più grave è che il sistema bancario, motore del capitalismo familistico italiano, è in crisi palese di fronte alla concorrenza europea ed è vittima di scandali senza precedenti.
Come si muove l’Europa
Partendo da questa situazione è possibile, quindi, valutare l’atteggiamento europeo e italiano nelle varie istituzioni della globalizzazione. Nel caso del commercio internazionale, ossia del Wto, l’Ue ha un forte coordinamento politico al punto che il Commissario europeo al commercio Lamy conta più dei ministri dei Paesi membri durante i negoziati. La linea sciagurata seguita proprio da Lamy a Cancun, in sostegno della politica americana e sorda alle forti richieste del Sud del mondo, ha portato l’Unione europea a negoziare in maniera aggressiva su numerose tematiche.
Per esempio sull’allargamento del mandato del Wto stesso agli investimenti, proposta fortemente contestata dal Sud del mondo, proprio quando una coraggiosa apertura politica al Sud, in particolare quelli più poveri e messi in ombra dalle nuove potenze emergenti, avrebbe potuto portare a sviluppi positivi senza precedenti. Allo stesso tempo l’UE accetta passivamente la revisione dell’accordo preferenziale di Cotonou che ha con i Paesi Africa-Caraibi-Pacifico, come richiesto dal sistema del Wto entro il 2008, sovrapponendo un sistema di accordi commerciali che snaturano l’approccio innovativo del partenariato con il Sud del mondo promosso dall’Europa sin dalla Convenzione di Lomé. Risulta difficile per l’Europa, uscita come la vera sconfitta di Cancun dopo che anche gli Usa l’hanno scaricata malamente, riallacciare a questo punto i legami di fiducia con i Paesi poveri, se non tramite la riapertura del processo di revisione della politica agricola comunitaria e una marcia indietro dalle richieste di liberalizzazione del mercato dei servizi, inclusi alcuni essenziali come l’acqua, avanzate aggressivamente ai Paesi del Sud lo scorso anno.
Per quel che concerne, invece, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, i Paesi europei ancora si muovono in ordine sparso, specialmente nella prima, e quindi, nonostante in alcuni casi cerchino di promuovere un approccio comune e un po’ diverso da quello americano, risultano perdenti su qualsiasi proposta muovano per la mancanza di un coordinamento efficace e della forza politica che ne deriverebbe. Emblematica la situazione del dramma del debito estero dei Paesi del Sud del mondo, che risulta ben lungi dall’essere risolta dalle varie iniziative internazionali promosse, e in cui la proposta europea al Fondo monetario di creazione di un meccanismo innovativo di arbitrato per tutti i creditori pubblici e privati è stata fermata dal veto americano.
In questo contesto va detto che l’attuale governo italiano sta dando ben poca importanza alle decisioni di queste due istituzioni e lascia ai funzionari italiani nelle istituzioni ampi poteri decisionali. A prescindere dalla validità o meno delle posizioni prese, sarebbe da chiedersi perché a oggi non esiste alcun meccanismo di controllo parlamentare diretto su chi rappresenta l’Italia in queste istituzioni, a differenza di quanto succede in altri Paesi.
Inoltre, nell’anno del 60° anniversario delle due istituzioni di Bretton Woods, è quanto mai anacronistico che queste funzionino secondo il meccanismo “medievale” di un dollaro – un voto che vede i Paesi del G7 controllare saldamente il gioco. Ancora più inaccettabile il fatto che i presidenti della Banca e del Fondo debbano essere per consuetudine rispettivamente americano ed europeo, escludendo a priori esponenti del Sud del mondo. Risulta impossibile di fatto invertire la rotta se non sarà proprio l’Europa a lasciare maggiore spazio decisionale al Sud del mondo nelle istituzioni, rinunciando anche a parte del suo potere attuale. Soltanto così potranno realizzarsi nuove alleanze con la possibilità di influenzare maggiormente anche la posizione americana.
Una diplomazia economica?
Infine, è necessario ricordare come l’intervento economico per l’internazionalizzazione del “sistema Italia” si è andato rafforzando in questi anni, secondo una tendenza che vede l’aiuto alle imprese che operano all’estero
aumentare a fronte di una diminuzione dell’effettivo aiuto allo sviluppo per i Paesi poveri. In questo il governo si mostra pericolosamente coerente con una filosofia di “diplomazia economica”, più che politica, che prevale nel palazzo della Farnesina, contabilizzando addirittura come aiuto allo sviluppo le varie cancellazioni del debito ai Paesi più poveri richieste dalla legge 209 del 2000. Una vera e propria presa in giro, in barba agli impegni presi dal governo italiano al Consiglio europeo di Barcellona nel 2002 di aumentare i propri aiuti allo sviluppo. Di fronte a un tale approccio l’unica via immediata per far sopravvivere cooperazione italiana sembra rimanere la cooperazione decentrata degli enti locali con il fine collegare popoli diversi non governi, i quali non sono in grado di tenere fede ai propri impegni aumentare l’aiuto allo sviluppo.
In ciascuno dei casi considerati l’orizzonte da considerare per promuovere un cambiamento non può che essere quello europeo ed in particolare il ruolo che l’Unione europea, esempio imperfetto ma pur sempre valido di approccio multilaterale tra paesi, può svolgere per rilanciare una nuova stagione del multilateralismo, oggi in crisi, a livello globale.
Non solo è necessario che i governi europei coordino sempre più le loro posizioni nelle varie sedi internazionali, ma anche quando questo succede è necessaria una visione e strategia politica europea diversa, che dovrà contemplare la relativizzazione del rapporto con l’altra sponda dell’Atlantico. È anacronistico, infatti, pensare che oggi il problema sia soltanto quello di rinsaldare amicizia con gli Usa, incrinata dallo strappo sull’Iraq; esiste un problema transatalantico per l’Europa, come esiste un problema di rapporti con la Cina, il sud-est asiatico, il Medio Oriente, ed il blocco emergente del Mercosur. L’Europa deve pensarsi soltanto come uno dei tanti poli del nuovo panorama internazionale e cercare di fare la sua parte per evitare i conflitti futuri tra potenze nuove e vecchie del pianeta.
La necessità di avere un ONU profondamente rinnovato emerge con forza oggi, ma dopo numerosi tentativi falliti di riforma del sistema delle Nazioni Unite, oggi apertamente in crisi, ci si chiede chi dovrebbe fare un primo passo diverso e come. Non può essere che l’Europa a farlo, se si scartano gli Stati Uniti con realismo e i nuovi soggetti forti del sud, ai quali non si può chiedere di risolvere subito anche i problemi globali oltre i loro. L’Europa, che conterà sempre meno economicamente in futuro, può essere, di contro, un soggetto forte diplomaticamente se vuole diventare così l’arbitro delle future contese mondiali, se accettasse finalmente che il sud del mondo ha diritto ad avere voce in capitolo sulla scena internazionale e agisse da garante affinché sia ascoltata la voce dei paesi più poveri, ed in particolare dell’Africa, e non solo delle nuove potenze emergenti del sud del mondo.
Questo può avvenire soltanto se l’Ue si rilancia sulla scena internazionale con una singola proposta forte che ridia credibilità al sogno di pace europeo: la creazione di una cassa di compensazione politica nuova nell’ONU delle tensioni economiche prodotte da una globalizzazione iniqua, ad esempio un consiglio per lo sviluppo umano, o di sicurezza economico e sociale se si vuole, che funzioni secondo un meccanismo decisionale con rappresentanza su base regionale. È ora di andare oltre gli equilibri politici che risalgono alla fine della seconda guerra mondiale se si vogliono evitare nuovi conflitti e tragedie. È ora di abbandonare la logica dei circoli ristretti come il G8, cercando un nuovo equilibrio tra efficienza nelle decisioni e democrazia.
Il governo Berlusconi ha preferito assecondare la sempre più evidente crisi del multilateralismo rifugiandosi in un approccio bilaterale con quei partner che ritiene cruciali per l’Italia. Una miopia politica enorme, che dimentica come dovrebbe essere nell’interesse stesso dell’Italia, paese che vive un declino proprio a causa della sua incapacità strutturale di competere nella globalizzazione, avere un nuovo quadro multilaterale più efficace, altrimenti sarà soltanto questione di giorni la sua esclusione dalle poco democratiche sedi decisionali di oggi. A livello globale, non arriverà nessun decreto “salva calcio” per l’Italia, neanche dalle dubbie amicizie di oggi, e questo Berlusconi lo sottovaluta ampiamente.