L’inferno della dittatura
Gli occhi di don Renzo Rossi hanno visto ciò che a nessuno era concesso vedere. Nel 1970, per una strana coincidenza del destino, la sua vita si incrociò con quella dei prigionieri politici che affollavano le carceri brasiliane della dittatura militare. Don Rossi prese parte a una delle pagine più inquietanti e drammatiche della storia del Paese carioca. Egli c’era, quando frei Tito Alencar da Lima veniva torturato selvaggiamente: “Per tre giorni appeso al ‘pau-do-arara’ – scriverà più tardi l’amico e compagno di prigionia frei Betto (oggi consigliere del presidente Lula) – o seduto sulla ‘sedia dei drago’, fatta di placche metalliche e fili, ricevette scosse elettriche alla testa, ai tendini dei piedi e alle orecchie. Gli dettero legnate sulla schiena, sul petto e sulle gambe, gonfiarono le sue mani con staffilate, lo vestirono di paramenti e gli fecero aprire la bocca ‘per ricevere l’ostia consacrata’: scariche elettriche sulla bocca”.
Fu il dramma dei nove domenicani accusati di flirtare con la sinistra del leader Carlos Marighella, raccontato da frei Betto nel libro Dai sotterranei della storia (Mondadori, 1971) e in Battesimo di sangue. I domenicani e la morte di Carlos Marighella (Emi, 1983 ora rieditato da Sperling & Kupfer). Don Renzo Rossi è un sacerdote fiorentino (fu amico di don Milani con il quale bisticciò in varie circostanze) e missionario in Brasile dal 1965. Su di lui, un ex prigioniero politico, Emiliano Josè, ha da poco scritto un libro, tradotto in italiano per la San Paolo con il titolo Don Renzo Rossi. Un prete fiorentino nelle carceri del Brasile (prefazione di frei Betto e Biagi). Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Renzo Rossi, lei ha vissuto in prima persona una delle pagine più sconvolgenti della storia brasiliana: gli anni delle repressioni feroci contro gli oppositori politici che sono sfociate in stermini, sparizioni, aggressioni, torture e rastrellamenti violenti. Quando entrò nei sotterranei della vita?
Fu il 1970. Io ero in Brasile già da cinque anni. Erano appena stati arrestati i domenicani legati a Marighella e in modo particolare era stato arrestato un mio amico domenicano veneziano morto un mese fa, Giorgio Callegari. Alcuni parenti, fra cui il babbo, mi chiesero se potevo avere notizie di lui e allora decisi di andare
nel carcere di Tiradentes a San Paolo per incontrarlo. Fu difficilissimo perché non era possibile avere permessi. Ma io mi misi a urlare, a battere alla porta delle autorità perché mi facessero entrare ed ebbi anche un lettera d’appoggio da parte del cardinale di Salvador de Bahia, che subito dopo si pentì di avermela fatta. Ecco, fu quella l’occasione che mi spalancò le porte della allucinante condizione di vita dei domenicani arrestati, torturati e minacciati. Conobbi quella storia dal di dentro, conobbi tutti i protagonisti, da frei Betto a frei Tito a frei Fernando de Brito.
Non avevo nessun mandato ufficiale, non ero un cappellano come a volte erroneamente si dice, ero solo un sacerdote che reclamava il diritto di visitare i propri fratelli e amici ingiustamente incarcerati. Piano piano questa mia presenza richiamò l’attenzione di tanti prigionieri che avevano bisogno di un sostegno e cominciai a girare fra le carceri fino al 1982. Raccolsi testimonianze di vita, memorie, sofferenze, privazioni, violenze. Furono anni infernali.
Le condizioni di vita dei prigionieri politici erano disastrose?
Nel momento in cui venivano arrestati, per la legge speciale stabilita dal colpo di stato militare e poi con la recrudescenza di questo golpe con l’atto istituzionale del 5 dicembre del 1969, il carcere divenne durissimo e chiunque veniva arrestato era sottoposto a torture devastanti per conoscere le notizie degli altri gruppi: torture fisiche e psicologiche. Poi, passato il processo, le condizioni miglioravano un po’.
Le torture rimanevano nella mente dei torturati. Frei Tito si suicidò alcuni anni dopo a Lione appendendosi con una fune a un albero nel 1974. E anche frei Fernando de Brito oggi vive l’incubo di quei giorni.
Conobbi bene entrambi. Quando entrai nel carcere di Tiradentes nel 1970 vidi frei Tito con i polsi fasciati. Era un uomo molto sensibile. Aveva i polsi fasciati perché una settimana prima, di notte, scrisse una lettera in cui diceva apertamente che voleva ripetere il sacrificio di Cristo come denuncia nei confronti della dittatura. E fece questo gesto: di notte andò in bagno e si taglio le vene dei polsi. Solo che proprio in quel momento un altro detenuto scese in bagno e lo trovò a terra. Chiamò gli infermieri che lo salvarono. Nel 1970 i gruppi clandestini armati, sequestrarono alcuni ambasciatori e il console giapponese. Per liberarli chiesero la scarcerazione di alcuni prigionieri politici, fra cui Frei Tito. Egli uscì dal carcere psicologicamente distrutto e cercò di trovare rifugio in Francia, dove però non resse ai fantasmi di Tiradentes e si suicidò appendendosi a un albero. Fu una tragedia che richiamò l’attenzione del mondo intero. Frei Tito questa volta riuscì nel suo intento. Il suicidio fu la liberazione dall’incubo di quelle torture infernali che non lo avevano mai più abbandonato.
Fernando de Brito fu un altro domenicano che non riuscì mai a riprendersi. La sua storia fu raccontata da frei Betto in Battesimo di sangue.
Il problema di Fernando fu un altro. Egli parlò durante le torture e venne considerato un traditore. Ma di fatto il suo non fu un tradimento reale. Fernando disse che doveva incontrarsi con Marighella, ma la polizia lo sapeva di già. Lo torturarono per avere la conferma. Non tradì in senso vero e proprio. Anche se lui non avesse parlato, Marighella lo avrebbero trovato e ucciso lo stesso. L’idea di sentirsi un debole lo coprì di infamia e non riuscì più a scrollarsi di dosso quella sensazione. Cominciò un calvario psicologico che gli creò grossi traumi. Ora vive nel nord di Salvador e sta un po’ meglio. Il libro Battesimo di sangue è stato scritto da frei Betto proprio con l’intento di difendere frei Fernando.
Oggi il Brasile vive tutta un’altra storia. La dittatura è oramai lontana, anche se permangono forme inquietanti di ingiustizia, e alla guida del Paese c’è Lula, il leader dei movimenti di base, dei lavoratori, dei senza terra, dei senza diritti...
Il Brasile sta vivendo un momento di speranza. Il popolo brasiliano, per sua natura non si dispera mai. Se perde il campionato del mondo, molto tranquillamente punta al prossimo. Insomma, si vive con la speranza di un domani migliore. Naturalmente non possiamo pensare che Lula porti a risultati immediati, però il presidente ha fatto dei gesti politici e simbolici importanti come il diritto al riconoscimento della terra dove si poggiano le tende dei poveri, che fino a ieri apparteneva allo Stato, il quale poteva arbitrariamente intervenire per mandar via questi Sem Terra. Il lavoro di Lula è lento e progressivo.
Lei ha vissuto quasi tutta la sua stagione brasiliana a Salvador de Bahia. Il 16 maggio di due anni fa veniva ucciso un missionario altoatesino, don Luis Lintner. Lei era lì quando avvenne questo assassinio?
Conoscevo abbastanza bene Luis Lintner. Viveva in un quartiere periferico di Salvador, Cajazeiras. Io ero già rientrato in Italia quando è stato ucciso, però conosco bene la sua vicenda. Lintner condannava gli spacciatori di droga che smistavano le sostanze attraverso i ragazzini. Oramai è risaputo che egli conosceva i nomi di questi spacciatori e pare che li avesse denunciati alla polizia. Per liberarsi di lui l’hanno ucciso. In Brasile si fa così. Lintner era un uomo schivo, ma molto dolce e aperto alle sofferenze dei poveri. A Cajazeiras faceva molto per i ragazzi. Ho partecipato a una manifestazione in suo onore organizzata a Firenze dal progetto Agata Smeralda, con il sindaco e l’arcivescovo. È stato un momento molto bello e intenso. È uno dei tanti martiri della Chiesa latinoamericana.