Soli nel tempo della globalità
Elena Liotta, psicologa analista, è autrice di un libro – “Le solitudini nella società globale”, edito dalla Piccola Editrice – che verte su un tema estremamente attuale quale quello della solitudine, in un’epoca in cui tutto è mercificato e il tempo delle relazioni e di cura della persona è ridotto quando non annullato del tutto.
Il titolo del suo libro lascia intendere che qualcosa di concettualmente nuovo caratterizza la solitudine oggi diversamente che nel passato.
È stato l’incontro con i pazienti e l’ascolto delle persone in contesti socio-educativi a farmi capire che oggi esistono, al di là delle apparenze, alcune solitudini sottili e penose, che a volte non si possono neanche condividere poiché appaiono inadeguate di fronte a un modello di efficienza e potenza che ci vorrebbe sempre partecipi, positivi, allegri, mai stanchi, tanto meno depressi. Dato che, per una legge psicologica piuttosto puntuale, ciò che viene represso tende a manifestarsi inconsciamente in modo più marcato, ecco che abbiamo, all’opposto dell’ideale corrente, un dilagare di depressioni più o meno gravi e riconoscibili e di sintomi vari, dagli attacchi di panico ai disturbi alimentari alle allergie di origine mista, tutto quell’insieme di malesseri che definiamo psicosomatici. Nella società che esalta il benessere e il buon vivere molti si lamentano di non avere più tempo per nulla, di lavorare senza costrutto poiché i soldi non bastano mai, di non trovare un senso autentico in ciò che fanno. La solitudine, oltre a essere un vissuto personale che può dipendere da eventi, carattere, momenti particolari della vita, oggi è anche questo senso di isolamento, disorientamento e impotenza che la diffusione di una tecnologia imposta dall’alto finisce per acuire più che lenire.
Nella nostra società, caratterizzata da uno sviluppo tecnologico onnicomprensivo, l’individuo appare impreparato a elaborare significati adeguati e “si sente” solo e angosciato. Come superare questo disagio?
Attraverso canali commerciali i vertici fanno calare verso il basso una marea di prodotti senza, purtroppo, preparare o accompagnare le persone nei processi di apprendimento. Come un genitore che metta in mano a un bambino troppo piccolo un giocattolo che non è in grado di usare. Spesso la reazione del bambino sarà quella di sentirsi frustrato sino a diventare esasperato e aggressivo. Così le automobili troppo veloci in mano ai giovanissimi, i computer sovradimensionati in mano a gente che non sapeva usare neanche la macchina da scrivere, un fiorire di piccoli tasti e telecomandi che gli anziani vedono male e tengono in mano con fatica, gli esempi sono infiniti. La vita quotidiana è spesso una battaglia sulle piccole cose, sulla burocrazia sempre più esigente e minacciosa. La soluzione? Già poter parlare di questa frustrazione, vederla riconosciuta, fa sentire meglio. In una visione anticonsumistica non radicale ma praticabile da chiunque, suggerirei il buon senso dell’uso equilibrato della tecnologia, il non soggiacere alla logica perversa dell’ultima novità, dell’induzione pubblicitaria, dell’emulazione a tutti i costi, cui vediamo cedere soprattutto i giovani e purtroppo anche i bambini. Anche un contenimento dell’iperattività a favore della cura di sé e delle relazioni importanti. La relazione interpersonale diretta, affettiva e comunicativa – il tempo concreto per stare insieme, guardarsi in faccia, parlare davvero, non distrattamente! – non può essere sostituita da oggetti, per quanto seduttivi, che intrattengano bambini e anziani, affinché non disturbino l’adulto che deve lavorare... per fare i soldi per comprare quelle cose che intrattengano... È un circolo vizioso assurdo. La solitudine si annida e cresce in questi circoli senza senso e può sfociare in quei gesti clamorosi e inaspettati delle persone perbene, dei ragazzi tranquilli, i quali, essendo forse più fragili degli altri, non ce la fanno più a sentirsi interiormente isolati, abbandonati in mezzo alla folla. Quella ‘folla solitaria’ di cui si parlava già negli anni ‘60, quando materialismo e consumismo hanno preso il via nelle società occidentali. Senza relazioni umane significative la vita perde di senso. Senza scelte sulle priorità si continua a girare a vuoto. Mi spiace ma non ci sono altre ricette.
Lei parla con rammarico della scomparsa di alcuni luoghi (la piazza, il mercato…) che in un passato recente contribuivano a dare un senso di appartenenza ai singoli, facendoli sentire parte di una comunità. In che modo possiamo recuperare queste possibilità relazionali?
Ricostruendo, anche in altri modi, questi spazi sociali, e opponendoci collettivamente, attraverso la protesta a questo smantellamento. Sono testimone sia della richiesta sia della nascita di gruppi di incontro, iniziati su questioni di lavoro, studio, altro, che poi continuano per il piacere di stare insieme e scambiare opinioni e costruire iniziative. Oppure dei gruppi di auto-mutuo aiuto che vanno diffondendosi in ambito socio-sanitario. Qualcosa si muove. Ma, nei piccoli centri, la protesta, la richiesta di spazi pubblici, l’associazionismo spontaneo, le proposte che vengono dalla cittadinanza, possono ancora funzionare.
Contro modalità relazionali convenzionali e artificiose, lei ritiene auspicabile il recupero di una dimensione esistenziale che conferisca valore alla solitudine, spazio di discernimento della propria individualità e motore all’azione?
Come ho già accennato prima, la solitudine è addirittura necessaria, indispensabile, se si vuole chiarire il senso della propria vita e recuperare le priorità, identificare i valori. In questo ci ritroviamo nuovamente perplessi: la solitudine creativa, costruttiva, quella che rende più forti e individuati, viene scoraggiata dai sistemi educativi correnti. Se un bambino si apparta, parla poco, è assorto, viene subito sospettato di problematicità. Anche tra gli adulti essere un solitario genera sentimenti ambigui negli altri. A meno che non ci sia un’appartenenza riconosciuta come il mistico o il contemplativo (perché prega o medita) oppure l’artista (perché crea le sue opere). Chi si allontana dalle aspettative collettive e dal comportamento della massa è come un disertore. Bisogna anche avere il coraggio di disertare, dissociarsi, proteggere la propria individualità – che non significa egoismo.
Nel definire il sistema economico vigente lei non esita a parlare di “grande imbroglio”, e di come ci sia stata sottratta l’essenza stessa della vita per il tacere le sue con notazioni di fatica, frustrazione e solitudine che reca con sé. Come si è arrivati a questo? Perché istituti come la famiglia e la scuola non appaiono capaci di generare sistemi alternativi?
La scoperta della realtà della vita è oggi più difficile proprio per questo velo di falsità condivisa, come nella favola del re nudo, che tiene insieme un consenso ufficiale e un dissenso sommerso. Esiste una maggioranza che è ancora silenziosa, che non osa aprire bocca se non a tu per tu, oppure solo se incoraggiata. A volte, in contesti di supervisione con educatori, insegnanti, altre figure impegnate nella cura degli altri, basta che io faccia, ad esempio, la semplice domanda: ma non vi sentite stanche? E vien fuori un diluvio di considerazioni e un senso di sollievo. Eppure sullo stress, il burn out, cioè l’esaurimento lavorativo, ormai si interrogano molte istituzioni. Ma le istituzioni collettive più sono grandi e più sono lente e poi non si occupano del singolo o dei piccoli gruppi. C’è sempre qualcosa che si può fare, che si può eliminare, introdurre, migliorare, anche nella peggiore delle situazioni. Ma di nuovo il fantasma dell’eccellenza domina. O tutto o niente. Se non posso cambiare tutta la mia vita, tutto il mio partner, tutta la scuola, il lavoro, la casa, allora tanto vale lasciar perdere. Un atteggiamento molto infantile. Chi non ha il coraggio e soprattutto la pazienza per portare avanti i cambiamenti possibili allora provi a smettere di lamentarsi e accetti la sorte migliorando la posizione in cui si trova, non rimettendoci la salute propria e di chi lo circonda.
In una parte del suo libro, lei affronta il tema delle donne e di come il loro vissuto sia caratterizzato da un rapporto privilegiato con l’interiorità. Da questa prerogativa giungerebbe loro una maggiore capacità di analisi, circa le questioni legate alla solitudine esistenziale. Nel contesto attuale, quale ritiene possa essere il contributo che le donne possono offrire in modo specifico?
È vero, le donne sanno incontrarsi, sanno parlare, sanno accogliere l’aiuto che viene dall’altra/o, sono curiose di scoprirsi nel loro mondo interno e nelle loro potenzialità. Il silenzio che caratterizza oggi la posizione delle donne, parlo delle donne della società – quelle che non partecipano necessariamente a movimenti di alcun tipo, che non si esprimono pubblicamente, quelle che vivono la loro vita tra famiglia, figli, impegni, da sole, in una professione o altro – non è un silenzio vuoto o privo di riflessione. Ci sono processi collettivi di incubazione molto lunghi, specie per i cambiamenti importanti. Momenti in cui l’unica cosa che si può fare è non alimentare il disagio, stare fermi, ritirarsi da un gioco che non ci appartiene e che si può combattere solo standone fuori. Se fosse per me, inviterei le donne, che sono numericamente tante, a boicottare di più, sempre in silenzio ma nei fatti, tutti quei valori antitetici ai loro. Tra di loro le donne parlano molto e si incontrano senza fare chiasso. Non condividono di sicuro quelle scelte fatte dai governi, qualsiasi governo, che portano alla negazione della vita, come le guerre, le sopraffazioni, l’assenza di solidarietà. Non hanno tutte quelle esigenze che le leggi del consumismo vogliono far loro credere. Soffrono molto in generale, questo sì, sempre in silenzio, ma non nello stesso silenzio rassegnato del passato pre-femminista. Non tutte le ragazze vogliono fare le veline, non tutte le donne che invecchiano pensano solo a rifarsi la faccia con la chirurgia estetica. Io, che incontro tante persone, non solo in relazione al mio lavoro, non ho mai conosciuto né le une né le altre e sono molto più ottimista.
Note
Le solitudini nella società globaleViterbo 2003, pagg. 118
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