LETTERATURA

Gli altri di Todorov

Se n’è andato un gigante del pensiero, uno degli intellettuali più fecondi del Novecento europeo. Insegnava l’alterità e la bellezza, la dignità e la saggezza.
Francesco Comina

Se ne vanno in fila indiana tutti i grandi intellettuali del Novecento. Quelli che hanno indagato l’uomo, che hanno strofinato sale sulle ferite lasciate sul corpo della storia da parte dei totalitarismi. Uomini che hanno cercato di capire quello che sta accadendo intorno a noi: la deriva culturale, etica, il non senso della storia. Uomini come John Berger, l’implacabile osservatore del reale, che se n’è andato via col nuovo anno (è morto a Parigi il 2 gennaio), o come il sociologo Zygmunt Bauman, indagatore lucido della società liquida, che abbiamo ricordato nel numero precedente (morto a Leeds il 9 gennaio), come lo scrittore bosniaco Pedrag Matvejevic, che ha cantato la civiltà mediterranea con il suo gioiello, Breviario mediterraneo (si è spento il primo di febbraio a Zagabria).

E il 7 febbraio ci ha lasciato un gigante: Tzvetan Todorov. Al pari di Bauman, Todorov è stato uno dei pensatori più profondi e acuti del vecchio continente. Anche lui ha sperimentato la violenza totalitaria. E l’ha raccontata. A 24 anni si è svegliato dall’incubo ipnotico con cui il regime comunista sovietico lo teneva sotto scacco nella sua Bulgaria e se l’è svignata a gambe levate. Si è trasferito nel 1963 a Parigi, dove ha studiato filosofia del linguaggio con Roland Barthes e poi ha insegnato alla Yale University e diretto, dal 1987, il Centro di ricerca sulle arti e linguaggio di Parigi.

L’abbandono del manichino ideologico del regime lo ha posto di fronte agli altri. Chi sono questi “altri” che nella sua Bulgaria venivano intruppati in un tutto inconsistente e violento? Questi altri sono diventati il paradigma per capire noi stessi, per inabissarsi nella storia dell’Occidente, nei meandri del panottico moderno dove il trionfo di una cultura e una società ha messo fuorigioco popoli, culture, religioni. Insomma, la diversità. Negandola dentro, l’abbiamo negata anche fuori. E non è un caso che oggi gli ex Paesi del blocco comunista siano quelli più respingenti e xenofobi. In una recente intervista a Left (18 agosto 2016) a cura di Simona Maggiorelli, Todorov lo spiegava così: “I regimi comunisti del XX secolo, costruiti sul modello stabilito da Lenin in Russia, non avevano davvero come base l’universalità e l’uguaglianza tra tutte le persone perché, per loro, una parte della popolazione doveva essere eliminata: la borghesia o i ricchi in Russia, gli intellettuali e gli abitanti delle città in Cambogia, solo per fare due esempi. (…) Così questi sistemi hanno fatto crescere generazioni che diffidano dei valori civili, convinti che l’interesse sia l’unico movente delle nostre azioni. Paesi dell’Est come l’Ungheria e la Polonia oggi attuano politiche fra le più feroci contro i migranti. Un caso? Mi sembra che politiche di respingimento e chiusura verso i migranti, che possono essere osservate anche in altri Paesi dell’Europa orientale, abbiano origine nel medesimo fenomeno. L’esperienza del passato totalitario non favorisce generosità e fiducia. Non arriva a produrre nemmeno una retorica riguardo all’assistenza necessaria verso chi fugge da guerre e povertà. L’egoismo, individuale o collettivo, prevale”. 

Il problema dell’altro

Lo studio dell’alterità e dei meccanismi con i quali la violenza mimetica ha tentato in tutti i modi di respingerla e annientarla o di assorbirla e annichilirla, ha scandito quasi tutta la produzione letteraria di Tzvetan Todorov. Uno dei suo libri più importanti è La conquista dell’America. Il problema dell’altro. In questo libro del 1982, Todorov ci spalanca dinanzi agli occhi il terribile disastro dell’impatto con la diversità. Una tragedia. Per la prima volta l’uomo si è trovato di fronte al suo simile più “altro” e non lo ha riconosciuto . L’età moderna nasce da qui, da questa impossibilità storica di riconoscere l’umanità nella sua più radicale diversità. L’effetto di questa condanna ce lo siamo portato dietro fino a oggi. Gli altri non possono essere considerati tali nell’impatto con l’Occidente. O sono diversi, e quindi inferiori, destinati al genocidio, al rifiuto, al respingimento, alla subalternità del diritto o sono uguali e quindi destinati con le buone o le cattive a essere sic et simpliciter come noi. Il comportamento degli spagnoli in questo frangente, ma in generale di tutti gli europei nella conquista dell’America, è stato tale da portare sempre alla distruzione della cultura indigena.

Questo meccanismo si è sviluppato negli anni passando attraverso rivoluzioni, cospirazioni, lotte, conflitti, guerre, e cambiamenti radicali del mondo. Con la caduta del muro di Berlino e la fine della dialettica Est-Ovest, il disordine ha preso il sopravvento sull’ordine che in qualche modo sembrava profilarsi e l’uomo ha preso a brancolare nel buio, spaesato, alienato, disincantato ed esposto ai giudizi altrui. 

L’uomo spaesato di Todorov è l’esiliato, il profugo che fugge dal suo Paese rincorso da una indicibile sofferenza. È il barbaro, contro cui si leva l’impulso brutale della violenza mimetica dell’Occidente, preso dal panico e dalla paura della diversità culturale e religiosa. Ma questo barbaro spaesato che è il povero riproduce, come in un gioco di specchi, il barbaro che è in noi: “La paura dei barbari – spiega Todorov nel suo libro che porta quel titolo – rischia di trasformare noi stessi in barbari”; dall’altra “rende il nostro avversario più forte e noi più deboli”. 

La bellezza

Negli ultimi anni Todorov si era ributtato nell’estetica, con la quale aveva aperto la sua ricerca scientifica e letteraria. Nel suo saggio La bellezza salverà il mondo del 2010 aveva indagato l’aspirazione nell’assoluto artistico, entrando nelle opere di poeti e artisti come Oscar Wilde, Rainer Maria Rilke, Maria Cvetaeva. Ma non con l’intento di sbrogliare il potere salvifico dell’arte (le vite di questi artisti finiscono male, scavano l’abisso) ma la promessa di un balsamo per l’eternità. 

Il suo ultimo libro, uscito lo scorso anno, I resistenti. Storie di uomini e donne che hanno lottato per la giustizia, è il racconto di otto vite emblematiche, otto disobbedienti alla costrizione (Etty Hillesum, la giovane deportata ad Auschwitz, l’oppositrice antinazista Germaine Tillion, i grandi scrittori russi Boris Pasternak e Aleksandr Solženicyn, i paladini dei diritti dei neri Nelson Mandela e Malcolm X, il pacifista israeliano David Shulman, Edward Snowde, l’informatico che ha svelato l’attività di intrusione e spionaggio dell’amministrazione americana). 

Sempre nell’intervista a Left Todorov li vedeva così: “Questi personaggi ribelli, come li chiamo io, ci dicono che siamo in grado di combattere un nemico senza odio; e che questo approccio nonviolento può essere più efficace della forza e dei metodi sanguinosi. Il primo passo è non annullare l’umanità dell’altro, vedere che anche il mio nemico è una persona. Invece di gettare in mare i bianchi afrikaners come suggerivano i leader più estremisti della popolazione nera sudafricana di Mandela, lui disse che andavano considerati come cittadini a pieno titolo, lottò perché non ci fossero più discriminazioni abolendo ogni forma di apartheid razziale. Questa lezione, a mio avviso, dovrebbe ispirare oggi le nostre politiche”.

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