Quel lontano G8
Per le violenze efferate sui manifestanti.
E arrivano sentenze e condanne da Strasburgo.
A quando la legge sulla tortura?
Abbiamo un problema con le istituzioni europee; anzi, diciamo meglio, abbiamo un problema con la Corte europea per i diritti dell’Uomo, che è come dire che non riusciamo ad applicare la Convenzione sui diritti umani, uno dei testi fondamentali (del 1950) della rinascita umana, civile, democratica dopo la grande carneficina che chiamiamo Seconda Guerra Mondiale.
La Corte di Strasburgo, negli ultimi anni, ha condannato più volte l’Italia, specie per le condizioni di vita nelle carceri, ma negli ultimi anni è diventata preminente un’altra questione, ossia la tortura, emersa dalle tenebre dell’omertà e della “storia minore” in occasione del G8 di Genova del 2001, quando gli abusi di polizia, le violazioni dei diritti fondamentali, i maltrattamenti sui detenuti furono praticati continuativamente, per giorni, su centinaia di cittadini comuni. Abusi che furono denunciati e che hanno alimentato due processi – per i falsi e le violenze nella scuola Diaz e per le angherie nella caserma di Bolzaneto – sui quali i tribunali hanno detto parole chiare senza poter infliggere condanne adeguate, a causa di normative gravemente carenti.
Perciò due anni fa, il 7 aprile 2015, l’Italia fu condannata dalla Corte di Strasburgo per non aver fatto giustizia sulla vicenda Diaz, un caso che pure si era concluso nel 2012 con la condanna in via definitiva per 25 funzionari e dirigenti di polizia. La Corte diede ragione al ricorrente – il cittadino Arnaldo Cestaro – perché la giustizia era stata incompleta: troppo lievi le pene, rispetto a un caso qualificato come tortura; inaccettabili le riduzioni di pena dovute all’indulto; inaccettabile la mancata ricerca dei responsabili materiali delle violenze (i 25 condannati formavano la catena di comando, ma non picchiarono nessuno); inaccettabili i mancati provvedimenti disciplinari; inaccettabile l’avere consentito ai vertici di polizia di “ostacolare impunemente” l’azione della magistratura; gravissimi i mancati interventi normativi, dopo il 2001, per prevenire ulteriori analoghi abusi.
Il testo della sentenza “Cestaro vs Italia” è durissimo, per certi versi umiliante, ma anche un’occasione unica per spezzare le catene che da sempre frenano l’azione politica e parlamentare quando si tratta di riformare le forze di sicurezza.
Sono passati oltre due anni e il governo si è limitato a stringere accordi diretti con alcuni dei firmatari di ricorsi analoghi a quello presentato da Arnaldo Cestaro, ma i più non hanno accettato la proposta e la Corte di Strasburgo emetterà prima o poi altre sentenze di condanna. Sono attese, dunque, ulteriori umiliazioni, e tuttavia il Parlamento è paralizzato, incapace di affrontare la materia. Non è stato e non sarà fatto entro la fine della legislatura ciò che la Corte europea nella sentenza indicava: una seria legge sulla tortura; la rimozione dei funzionari condannati; l’introduzione dei codici di riconoscimento sulle divise degli agenti. Non sarà fatto per mancanza di volontà politica. Le maggiori forze parlamentari – PD, centrodestra, M5S – hanno dimostrato di non voler attuare le indicazioni della Corte di Strasburgo. All’indomani della sentenza, il governo Renzi promise almeno una legge sulla tortura e in un paio di giorni fu, in effetti, approvato alla Camera un testo, che però si discostava – senza alcun motivo, se non l’anacronistica opposizione delle forze di polizia – dalla definizione accettata (anche dall’Italia) in sede di Nazioni Unite su alcuni punti qualificanti, depotenziando così la forza dissuasiva e il valore etico-politico di una legge sulla tortura. Il testo è poi stato ulteriormente peggiorato al Senato e, infine, accantonato.
Sorte analoga, ma ancora più beffarda, è toccata alla vicenda dei codici sulle divise, col ministro Marco Minniti che ha annunciato un surreale decreto ad hoc per introdurre i… codici di reparto, come se il ministro vivesse sulla Luna e non sapesse che la Corte richiede codici personali; come se il ministro non sapesse che i pubblici ministeri nel processo Diaz conoscevano benissimo i reparti di appartenenza dei poliziotti picchiatori, i quali sfuggirono al processo perché risultò impossibile identificarli uno per uno (a questo servono i codici personali).
Il dopo G8, dunque, scotta ancora e il potere d’interdizione riconosciuto agli apparati resta granitico. Luigi Manconi, che in Senato aveva presentato un progetto di legge sulla tortura coerente con la convenzione Onu (subito scartato dal suo stesso partito), dice che la politica vive una “sudditanza psicologica” rispetto alle forze dell’ordine e spiega così l’impasse che nemmeno la Corte di Strasburgo riesce a sbloccare. Si può scegliere però anche un altro punto di osservazione, ad esempio quello dei cittadini comuni che subiscono soprusi fino alla tortura, e sotto quest’angolazione la “sudditanza psicologica” diventa concreta complicità con poteri opachi che hanno dimostrato di vivere con disagio le regole implicite in una democrazia avanzata e gli stessi princìpi sanciti dalla Convenzione sui diritti umani.
È dunque tutto perduto? Sì, se l’autoreferenzialità e l’arretratezza degli attuali apparati di polizia saranno considerati un’immodificabile caratteristica dello stato italiano. No, se nella società civile maturerà un’esigenza di maggiore qualità democratica e quindi la pretesa di una riforma democratica delle forze di polizia. Questa seconda via, che potrebbe avviare un percorso di apertura e di autoriforma in seno agli apparati (atteso peraltro da molti agenti, oggi oppressi da dinamiche autoritarie), ha dei passaggi obbligati come il recepimento attivo delle sentenze della Corte di Strasburgo, l’approvazione di una vera legge sulla tortura (come chiesto in un appello firmato fra gli altri dal pm del processo Diaz, Enrico Zucca, e da uno dei giudici del processo Bolzaneto, Roberto Settembre), l’introduzione dei codici personali sulle divise, insomma l’avvio di un cantiere riformatore aperto e democratico che superi la “sudditanza” di cui parla Marconi e ne respinga l’implicito messaggio di rassegnazione al peggio.