La guerra dei droni
Con quanti e quali investimenti? Con quali rischi per i civili?
Cosa sono i droni e a cosa servono? Con il termine drone si indica generalmente un velivolo di diverse dimensioni comandato a distanza, tanto che si usa anche la sigla APR che sta per aeromobili a pilotaggio remoto (UAV Unmanned Aerial Vehicle in inglese). Possono essere utilizzati in ambito civile (rilevamento ambientale, urbanistico, fotografico ecc.) e in ambito militare. In quest’ultimo settore possono avere funzioni ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance) o anche di attacco armato UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle). Nel quadro di una crescente instabilità mondiale, i droni militari ISTAR o da attacco sono diventati sempre più importanti nel corso degli anni in relazione alle nuove tipologie di guerre in atto, che per lo più non vedono contrapposti due eserciti di due Stati avversari, ma spesso lo scontro tra forze armate di un Paese indebolito contro gruppi armati irregolari (spesso con attività terroristiche) con la partecipazione di truppe straniere (esemplare è il caso afghano). La difficoltà di operare su teatri lontani, tra popolazioni straniere per cultura, linguaggio, tradizioni, ha portato alcuni Paesi a utilizzare in modo sempre più massiccio i droni allo scopo principale di ridurre i costi in vite umane delle proprie truppe e arrivare a praticare la teoria delle “perdite zero”. Così si evita di operare direttamente su terreni pericolosi intervenendo da remoto, data la riluttanza sociale soprattutto in Occidente a interventi armati rischiosi per la vita dei propri uomini in conflitti presso aree lontane come l’Afghanistan, il Pakistan, la Somalia, lo Yemen ecc.
Il boom dei droni
Ecco, dunque, l’avvio di un utilizzo crescente dei droni militari che, durante l’amministrazione Obama, conosce un vero e proprio boom. Va ricordato, però, che non sono solo gli USA a utilizzarli, ma sono ormai una cinquantina (tra cui Regno Unito, Australia, Germania, Russia, Turchia, Cina, India, Iran, Italia, Francia) i Paesi dotati di tali sistemi sia ISTAR sia armati. Per avere un’idea del mercato, si pensi che il bilancio fiscale USA 2016 includeva 2,9 miliardi $ per la ricerca, lo sviluppo e l’acquisto di droni, che il costo di un’ora di volo di Predator e Reaper è tra i 2.500 e i 3.500 dollari. Il costo di un’ora di volo dei droni militari più grandi Global Hawk (lungo 14 m, con apertura alare di 40m e con autonomia di volo di 36 ore) è maggiore di circa 10 volte: circa 30.000 dollari per ora di volo. Il prezzo di un Global Hawk è di 131 milioni di dollari (222,7 con i costi di sviluppo). Si stima che il mercato (civile e militare) nel prossimo quadriennio si aggiri intorno a un miliardo di dollari, di cui due terzi destinati al settore della Difesa. Anche l’Unione Europea ha finanziato la ricerca in questo settore già dal 2001 – nell’ambito di programmi come FP7, Horizon 2020, COSME – dato che i droni sono prodotti duali, cioè con un possibile uso sia civile (ad esempio, nel controllo dei confini/sorveglianza marittima e nella sicurezza interna) sia militare. In particolare, sono stati concessi finanziamenti per 350 milioni €, mentre dal dicembre 2016 per la prima volta l’UE ha stabilito un Piano d’azione europeo in materia di difesa sovvenzionando con 3,5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027 un programma europeo di ricerca in ambito militare generico, all’interno del quale potranno rientrare anche i droni. Peraltro, in ambito OCCAR (l’organizzazione europea per la cooperazione in materia di armamenti) nel settembre 2016 si è già avviato ufficialmente il progetto del Drone Europeo assegnato a Leonardo-Finmeccanica, Airbus e Dassault Aviation, a cui partecipano Italia, Francia, Germania e Spagna.
È possibile leggere e/o scaricare il rapporto di Archivio Disarmo su “Droni militari: proliferazione o controllo?” in: www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/435-droni-militari-proliferazione-o-controllo
L’Italia, oltre a partecipare industrialmente al progetto del Drone Europeo che avrà compiti ISTAR, ha già in dotazione l’MQ-1c Predator A+ e l’MQ-9 Predator B (Reaper), velivoli fabbricati dalla statunitense General Atomics. Sono stati già utilizzati – sempre con compiti ISTAR – in Iraq, Afghanistan, Libia, Gibuti e Somalia, Kosovo, Siria-Iraq, Mediterraneo centrale. Entro breve, però, saranno armati, dato che l’Italia ha chiesto da tempo e ottenuto nel 2016 da Washington il permesso in tal senso.
Danni collaterali
Si pongono, però, alcuni problemi giuridici circa un adeguato bilanciamento tra i diritti umani che gli Stati devono effettuare prima di utilizzare i droni (ad esempio, nel rapporto tra la vita e la sicurezza oppure tra la privacy e la sicurezza). Con un drone possiamo agevolmente ottenere informazioni sulla vita di una persona: basti pensare al collocamento di un mini drone nei pressi delle finestre dell’abitazione di una persona, con riprese audio video. Inoltre, nell’ambito della cosiddetta dottrina della “legittima difesa preventiva” (dottrina Bush) possono essere usati? Possono essere usati anche nelle esecuzioni extragiudiziali, cioè nell’eliminazione fisica di persone al di fuori di azioni di combattimento e senza che ci sia stata una sentenza di tribunale? È sempre possibile individuare esattamente l’avversario, spesso non in divisa (e magari identificato solo attraverso l’uso del cellulare)? È sempre possibile eliminare “chirurgicamente” il terrorista senza colpire civili innocenti, come spesso viene affermato? Quanti civili rimangono vittime di tali attacchi? Molte domande, poche risposte. Bisogna riconoscere che vi è un’estrema difficoltà nell’accertamento delle vittime. Basti pensare che il governo USA, nel luglio 2016, dietro la pressione dell’opinione pubblica, ha dichiarato di aver effettuato, tra il gennaio 2009 e il 31 dicembre 2015, 473 attacchi in Afghanistan, Iraq e Siria, con un numero di vittime compreso tra le 2.436 (di cui 64 civili, 3%) e le 2.697 (di cui 116 civili, 4%). Insomma, sembra che neppure il Pentagono sappia quante persone e quali abbia ucciso. Il Bureau of Investigative Journalism BIJ (un’organizzazione privata di giornalismo investigativo) afferma che il totale stimato delle vittime tra il 2002 e il 2016 in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia oscillerebbe a oggi tra le 6.000 e le 8.000 unità: le vittime civili sarebbero tra l’11 e il 15%. Secondo altre stime, in alcuni casi, le percentuali sarebbero maggiori, in altri si sarebbe addirittura sbagliato obiettivo scambiando reporter per terroristi o una festa nuziale per un gruppo armato sovversivo: 100% civili! In realtà non è facile, con la pur avanzata tecnologia a disposizione, avere un quadro esatto dell’eventuale teatro d’attacco e la certezza del non coinvolgimento di vittime innocenti. È certo che tutti i parenti di queste vittime innocenti diventeranno quanto meno ostili nei confronti della potenza autrice dell’attacco con i droni: magari qualcuno andrà a ingrossare le fila dei nemici che si voleva annientare, ottenendo quindi l’effetto opposto.
Nubi sul futuro
Un fatto comunque è certo: il futuro dell’aviazione (civile e militare) è sempre più nei droni. A Dubai si sta progettando un drone-taxi che dovrebbe essere pronto per l’estate prossima. In ambito militare la convenienza è ancor più evidente: non si rischia la vita dei propri piloti, ma al massimo quella della macchina e quella dei “danni collaterali”, cioè di cittadini innocenti di altri Paesi. I governi, quindi, tenderanno sempre più a dotarsene, ma rimangono aperte numerose questioni giuridiche di diritto nazionale e internazionale, data anche la mancanza di chiarezza nell’ambito della dottrina giuridica. Ancor più evidente è l’assenza, in particolare in Italia, di un dibattito politico pubblico, di cui si è avuta traccia solo nel momento in cui un cooperante italiano, Giovanni Lo Porto, rapito da Al Qaeda nel gennaio 2012 in Pakistan, fu ucciso nel 2015 con un drone durante un’operazione dell’antiterrorismo statunitense, in cui morì anche un altro prigioniero statunitense, Warren Weinstein.
Ora anche l’Italia si sta dotando di tali armi e sarebbe il caso che si aprisse quantomeno un dibattito pubblico, tenendo sempre a mente poi che tali armi non solo non rimarranno in possesso di pochi stati, ma arriveranno anche nelle mani della delinquenza organizzata e dei gruppi terroristici, con scenari ancor più preoccupanti.