Il pugno duro di Madrid
Che i catalani avessero autonomia lo sapevamo. Ora chiedono indipendenza. Il referendum del 1° ottobre ha riportato alla ribalta il conflitto tra Spagna e Catalogna. Abbiamo intervistato Steven Forti per capire meglio cosa stia accadendo nella penisola iberica.
Prof. Forti ci aiuti a comprendere meglio la crisi catalana e i motivi di forte tensione tra Spagna e Catalogna. Quali sono le ragioni storiche del conflitto?
Sono essenzialmente due: il processo di riforma dello Statuto d’Autonomia catalano (2005-2006) con la successiva sentenza di giugno 2010 della Corte Costituzionale spagnola che ne ha annullato alcuni articoli; e la crisi economica che si è trasformata in una crisi del sistema politico.
La sentenza del 2010 si deve a un ricorso del Partito Popolare contro uno Statuto già approvato dal Parlamento di Barcellona, da quello di Madrid e poi, con referendum, dalla popolazione catalana. Il che è sintomatico delle politiche portate avanti dal Partito Popolare che, a partire dal secondo governo di Aznar (2000), ha giocato sull’anticatalanismo per raccogliere maggiori consensi nel resto della Spagna. Il PP ha capito che poteva governare senza la Catalogna. La sentenza ha causato una profonda frustrazione in una gran parte della società catalana.
È professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea dell’Universidade Nova de Lisboa. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras” (Santiago de Compostela, 2014); con Giacomo Russo Spena, “Ada Colau, la città in comune” (Roma, 2016); con Arnau Gonzàlez i Vilalta e Enric Ucelay-Da Cal (Eds.), “El proceso separatista en Cataluña. Análisis de un pasado reciente (2006-2017)” (Granada, 2017). Scrive per diversi giornali e riviste in Italia, Spagna e Grecia (tra cui MicroMega, Left, Atlántica XXII, Epohi).
Ma a ciò deve essere aggiunta la crisi economica e le sue conseguenze. Nel maggio del 2010 il governo Zapatero applica le prime misure di austerity, nel 2011 è protagonista il movimento degli Indignados che occupa la maggior parte delle piazze spagnole, inclusa Barcellona. Quello che è chiamato processo sovranista catalano inizia nel settembre del 2012. La crisi spagnola è certamente economica e sociale: alti livelli di disoccupazione, diminuzione del PIL, sfratti ipotecari, ecc. Ma si trasforma rapidamente in una “crisi di sistema”. Il sistema politico, nato durante la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia alla fine degli anni Settanta, entra in cortocircuito. Non è un caso che, nel 2014, adbica il re Juan Carlos I e che nel 2015 si chiude l’epoca del bipartitismo con l’ingresso in Parlamento di due forze politiche nuove, Podemos e Ciudadanos. La crisi catalana è la declinazione territoriale della crisi di sistema spagnolo.
Il referendum, pur non avendo valore ai sensi della Costituzione spagnola, è stato affogato nella forza e in un tentativo repressivo. Non è stata eccessiva questa scelta da parte del governo spagnolo?
Certo, il ricorso alla forza è stato eccessivo. Ed è stato un grande errore politico per Madrid. La Catalogna, a partire dal 1 ottobre, è finita sulle prime pagine di tutti i giornali e il governo catalano, in un solo giorno, ha guadagnato più simpatie di quelle che aveva cercato infruttuosamente nei cinque anni precedenti.
Il fatto è che il governo spagnolo ha considerato l’indipendentismo catalano come una sorta di “sufflè”: qualcosa che si era gonfiato e che si sarebbe sgonfiato da sé con il tempo. Così non è stato. E a questa analisi superficiale del fenomeno, in una Spagna in crisi anche nel suo stesso “progetto di Paese”, il governo e le élites politiche spagnole non hanno saputo, né voluto costruire un nuovo progetto di Paese che potesse riconquistare la popolazione. Men che meno quella parte della società catalana che vuole separarsi dalla Spagna.
Non si è cercato di risolvere politicamente il problema quando sarebbe stato molto più facile. Lo si è lasciato marcire e al momento di massima tensione, il referendum, si è deciso di utilizzare la forza. Sarebbe stato strategicamente più intelligente, da parte del governo spagnolo, lasciar votare i catalani senza far intervenire la polizia e solo dopo dire che il referendum non aveva alcun valore. A quel punto, a livello internazionale, chi avrebbe dato appoggio a un referendum unilaterale con una bassa partecipazione? Anche perché se non ci fosse stato l’uso della forza sarebbe andata a votare ancor meno gente.
Cosa accadrebbe se si andasse, in un modo o in un altro, verso l’indipendenza?
Difficilmente la Catalogna diventerà indipendente. Almeno non adesso. Non ha appoggi a livello internazionale. E le imprese abbandonano la regione. In futuro dipenderà da cosa succederà. Siamo in una fase estremamente liquida: basti pensare alla vittoria di Trump o alla Brexit. Detto questo, nel caso in cui si realizzasse l’indipendenza catalana, si aprirebbe un vaso di Pandora in Europa. Ne abbiamo la riprova, con tutte le dovute differenze del caso, con la gestione del referendum in Veneto e Lombardia. Tutti, Lega inclusa, mettono le mani avanti facendosi scudo della Costituzione e affermando di non aver nulla a che vedere con l’indipendentismo catalano, però non si può capire cosa sta accadendo in nord Italia senza tenere presente dinamiche come quella catalana. E non è un caso che le istituzioni e i leader europei abbiano ribadito fino allo sfinimento che non riconoscerebbero una Catalogna indipendente. Sanno tutti benissimo che il rischio è enorme sia per il progetto di unificazione europeo sia per la tenuta di altri Stati-nazione.
Che possibilità di mediazione dialogica del conflitto ci sono ancora?
Vie ce ne sono sempre, ma se manca la Politica, quella con la P maiuscola, non si va lontano. E qui in questi ultimi cinque anni della Politica non si è vista nemmeno l’ombra. Chi ha dimostrato più lungimiranza in questi mesi è stata la sindaca di Barcellona, Ada Colau, che ha sempre chiesto il dialogo, lavorando per evitare la frattura della società catalana. Una frattura che non esisteva e che ora sta iniziando a percepirsi. Se non inizia un dialogo vero, ci vorranno generazioni per ricucire queste ferite.
Quali spazi per nuove autonomie ci sono oggi in Catalogna, dunque?
Ripeto, l’errore è stata l’assenza di dialogo politico, almeno dall’approvazione dello Statuto di Autonomia catalano del 2006. Ognuno si è arroccato sulle proprie posizioni. Con il rigore legalista di Madrid o con la difesa della via unilaterale di Barcellona non si risolvono i problemi: se Rajoy avesse fatto un’offerta anche minima di dialogo al governo catalano, il conflitto non sarebbe giunto al punto in cui siamo. Ma lo stesso dicasi del governo catalano. Si tenga comunque presente che la Catalogna ha un’autonomia molto ampia, maggiore di quella che hanno, ad esempio, Veneto e Lombardia. Sanità e scuola sono di competenza regionale, esiste una forza di polizia catalana, che dipende dal governo catalano, ecc. Ora ricondurre al dialogo questa situazione è estremamente difficile anche perché mancano, da una parte e dall’altra, dirigenti politici che sappiano guardare oltre l’orizzonte. Rajoy e Puigdemont dovrebbero farsi da parte. Ci vorrebbe qualcuno che abbia il coraggio di proporre un compromesso importante che permetta di siglare un nuovo patto, come si fece durante la transizione alla democrazia.
Cosa pensa dell’autodeterminazione di alcune minoranze, anche fuori dei confini spagnoli?
Credo che sia ovvio che un Paese abbia come uno degli articoli fondamentali della propria Carta costituzionale l’unità territoriale. Ciò nonostante, ci sono anche casi in cui si sono tenuti referendum di autodeterminazione. Si pensi alla Scozia o al Quebec. Non che le Costituzioni del Regno Unito e del Canada prevedessero il diritto di autodeterminazione dei popoli, ma si è giunti a un accordo politico, a una mediazione che ha permesso la celebrazione dello strumento referendario. Modalità ce ne sono tante e la Costituzione spagnola, in realtà, permetterebbe un referedum non vincolante anche sulla questione catalana, attraverso l’articolo 92. Ma il blocco di Madrid in tal senso è stato netto. Come anche l’incapacità degli indipendentisti di cercare di costruire alleanze nel resto della Spagna. Con Podemos, con le confluenze municipaliste e con i baschi sarebbe stato possibile. Detto questo, l’unica via possibile è il dialogo. Sempre.